martedì 19 ottobre 2021

Parco Dora, una Salita (e una discesa)

Ho sempre detestato gli applausi per qualcosa di notevole da me compiuto, come fossero lì a inquinare il perché del mio desiderio di muovermi. Per non dire un demerito nei confronti di chiunque si metta in gioco, pur non facendo qualcosa di apparentemente spettacolare.

Eppure questa volta sono sereno e accolgo con piacere questo applauso, che non sento rivolto al mio io narciso, ma all'aver portato ispirazione nel cuore di chi si muove. Felice di non essermi sottratto alla chiamata di questa sfida, che mi limitavo a sognare alla mia prima visita al parco Dora, cinque anni addietro. Felice di essermi potuto fidare delle mie sensazioni e di essere stato all'altezza dell'estrema serietà del compito.

Negli anni ho capito essermi fatto carico di una quantità di infelicità non opportunamente bilanciata da sufficiente gioia. La realizzazione attuale è che muovermi, e compiere gesti al di fuori di ciò che credo possibile, mi permette di cedere una parte del peso di quell'infelicità a favore di un senso di contentezza e riempimento. Senso che trascende la sterile "soddisfazione": con queste cose mi sento realizzato e pieno.

Grazie a Filippo per aver documentato alcune parti di questa esperienza.

 


 

mercoledì 1 settembre 2021

Obiettivi, Resilienza ed altre cose

 

The Emperor (An elegy for power and Lust) © Ravi Semenzato

Lungo questo intricato viaggio che è per me il Parkour, periodicamente mi fermo a indagare su cosa ho maturato nel corso di questi anni. E in particolar modo su quanto, di quel bagaglio che mi porto dietro, sia frutto, evidente e tangibile, di un certo modo di praticare e di intendere la vita. Non piuttosto una storia che racconto a me stesso, la quale sostanza è della stessa materia inconsistente di cui son fatti i sogni.

Questo è appunto uno di quei periodi, che mi sta mettendo in discussione su ciò che sto facendo della mia vita. Che inoltre, un po' forzatamente, mi ha fatto appendere la pratica al chiodo*, instillandomi da ciò il dubbio dell'essere stato veramente in grado di incorporare alcune attitudini e concetti fondamentali del Parkour, se non dello sport in generale.

Una domanda su tutte, emersa prepotente da questo rimestamento di perplessità, è stata:

 

Sono davvero resiliente?

Ho visto che darsi una risposta è facile, se si appartiene a una delle seguenti tipologie di persona:

- Quella sfiduciata delle proprie capacità, contraddistinta da una bassa considerazione di sé, risponderà sicuramente di no;

- Quella in possesso di livelli medio-alti d'autostima, dalle narrative interne orientate a un vivere funzionalmente positivi e sicuri delle proprie facoltà, risponderà con decisione di si.

So per certo d'appartenere decisamente più alla prima categoria che alla seconda, pur essendo, a tratti, un buon crossover tra le due.

Tuttavia, nel tempo ho realizzato che nessuna di queste due possibilità corrisponde a un quantomeno vago ideale di “verità”, quanto più alle continue piccole o grandi bugie su noi stessi che, a noi stessi, quotidianamente raccontiamo.

Arrecandoci in un modo o nell'altro una qualche forma di sofferenza: sia questa nel perpetrare una visione negativa e sminuente del nostro sé, sia quella conseguente a quando quelle illusioni auto-prodotte, con le quali ci sovrastimiamo, crollano tragicamente nel momento in cui la vita le mette a dura prova.

Da qui si possono formulare numerose ipotesi sul fatto che vivere più affini al secondo esempio, avendo accortezza di stare lontano da tutte quelle situazioni che ci possono mettere in crisi, possiede verosimilmente dei risvolti più favorevoli, all'esistere in maniera serena e funzionale a sé stessi.

Avendo però poche competenze “tecniche” in materia, valutando questa inclinazione come qualcosa di più o meno innato e poco “sceglibile”, e soprattutto avendo scelto io stesso, nella vita, di dedicarmi al Parkour / Art Du Déplacement con una certa attitudine (e da qui di pormi periodicamente sotto test), capirete bene perché non andrò oltre nel sondare questa possibilità.


Resilienza come “skill” a livelli

Cosa rispondo a me stesso, dunque, alla domanda: “sono resiliente”?

Si.

Ma cosa alla domanda: “sono totalmente resiliente”?

No.

L'idea attuale che vaga per la mia mente, è quella di non aver acquisito resilienza come un'abilità assoluta grazie a una certa soglia d'esposizione al Parkour. Ma che sia piuttosto un contenitore: pieno in una certa misura, che il tempo e degli scossoni troppo forti possono svuotare, richiedendo perciò costanti rabbocchi. Costituiti dal nostro periodico affrontare e riprenderci da ciò che è causa di malessere e abbattimento nella nostra vita.

Altra analogia che mi piace molto è anche quella di una spirale ascendente (quindi, per opposto, anche discendente), che ci orienta verso un estremo o l'altro di una data abilità, ponendoci così ad alcuni livelli “superiori” o “inferiori” della stessa.

Con questa immagine in mente so dunque di aver maturato un determinato livello di resilienza, nella sua capacità complessiva. Che mi permette di vivere in una misura funzionale e atta all'affrontare, in un certo lasso di tempo, un certo quantitativo e una certa intensità** di “schiaffoni della vita”.

So però, che quella resilienza non è tale da farmi affrontare veloce e incolume certe cadute, né situazioni instabili particolarmente gravose.

Mi verrebbe da speculare oltre e domandarmi se in quella situazione estrema descritta in “Se questo è un uomo”, che finalmente ho letto, la mia innata base di resilienza (quella indipendente dagli sforzi individuali coscienti) mi farebbe appartenere alla categoria dei “salvati” o a quella dei “sommersi”.

Fortunatamente questo è un esempio limite, il cui esito si può conoscere probabilmente solo con l'esperienza diretta. Che credo (e spero) non avrò mai modo di sperimentare in vita mia, anche in maniera vagamente analoga.


Resilienza negli obiettivi di Parkour (e non solo)

Tralasciando il piano metafisico, rieccomi sul piano pratico che è quello della pratica sportiva.

La resilienza non gioca un ruolo determinante solo sul fronte del “ripigliarsi” dopo un infortunio, ma è un elemento che definisce l'attaccamento a degli obiettivi di una certa entità, specie quelli sul lungo termine, mutando nella sua forma evoluta che è perseveranza.

Ad alcuni sicuramente potrà sembrare banale, ma il fatto di identificare degli obiettivi da perseguire, per poi perderli di vista a causa di distrazioni, avvenimenti avversi (quali infortuni sicuramente, ma anche imprevisti di varia natura), mancanza di energia, tempo etc. è sintomatico di una delle seguenti condizioni:

- di scarsa resilienza, nel saper fronteggiare ciò che ci ostacola nel conseguimento di ciò che ricerchiamo;

- di mancanza di un sincero e fervido attaccamento a quel fine.

A farmi i conti in tasca ho avuto modo di sperimentare entrambe queste possibilità, più volte nella mia storia personale. Allo stesso tempo ho anche avuto modo di portare certe sfide ambiziose fino al loro traguardo.

Come ad esempio in quel lungo travaglio, che è stato per me, ottenere la certificazione come coach di Parkour ADAPT. Costatomi anni di allenamento specifico, infortuni di ogni sorta, un esame durissimo a Bergamo (per poco non passato) e infine un secondo tentativo a Londra, questa volta conseguito con successo.

Tutto questo perché lo spettro delle possibilità è sempre vario e definito in larga parte da chi siamo noi, dalla natura dei nostri desideri e dalla nostra capacità di desiderare con un certo “fervore”.


Da questo punto di vista, in quel sentiero che non è quasi mai lineare, ma anzi tortuoso, talvolta labirintico, che porta a un termine particolarmente ambizioso, la vera resilienza in molti casi è proprio quella capacità di convincerci con determinazione a proseguire un percorso, dopo innumerevoli cadute e anche quando il desiderio in questo s'è affievolito.


La vita è una resistenza continua all'inerzia che tenta di sabotare il nostro volere più profondo. Chi si stanca di volere, vuole il nulla.” - Nietzsche


Il fattore attaccamento negli obiettivi del Parkour

Molte delle persone che ho visto raggiungere risultati straordinari in termini di movimento, in questi anni di pratica, mi hanno sempre stupito per un fattore più o meno comune: l'apparente assenza di obiettivi ben definiti e di una struttura organizzata per raggiungerli.

L'obiezione che sorge spontanea è che è questa la magia dei talentuosi e di chi è cresciuto adattando spontaneamente il proprio corpo a una pratica fisicamente tassativa, come quella del Parkour, fin dall'infanzia. In larga parte sono portato a sostenere questa linea, soprattutto avendo visto quanto nella mia esperienza l'aver lavorato con delle mete precise, principalmente in termini di forza e mobilità, mi abbia permesso di accedere a certi movimenti limitando gli infortuni e potenziando la performance.

Tuttavia isolando questo aspetto a quello dei salti o di certe skills, legate a fattori più marcatamente tecnici e/o percettivi che si mescolano “visceralmente” ad alcuni psicologici, questa convinzione è messa in dubbio, una volta superata la mera soglia dell'apprendimento di base di quel determinato schema motorio.

L'impressione è che un approccio “buddista”, di non attaccamento al dover fare un salto ben preciso, ma piuttosto orientato a immergersi nell'esperienza, a potenziare la visione affrontando quei salti che “balzano” davanti agli occhi dove prima non c'erano, possa portare a conseguire dei risultati inaspettatamente grandiosi sul lungo termine, e relativamente in sicurezza.

In particolar modo se questo processo non è contaminato da fattori esterni (pressione sociale/mediatica) o interni (ego, dogmi).

A rafforzare questa idea è la mia storia personale della quantità di insuccessi (e anche infortuni) ottenuti nella smaniosa ricerca di “sbloccare” quel salto o quella tecnica entro un termine prestabilito; per il quale sicuramente il fattore “fai da te”, con il quale ho imparato ad essere maestro di me stesso, non ha mai aiutato troppo in questa direzione.

Ma è nella guida istintiva, anziché all'affidarmi ottusamente a delle drills iper-ripetute (che hanno comunque il loro valore in delle fasi specifiche, specie nei principianti***) o al dogma della forza, che spesso sono stato in grado di accedere a risultati di cui stupirmi. Dettati da una ricerca “a naso” di stimoli sempre nuovi, costruendo così inconsciamente quegli step intermedi utili a portarmi nella direzione voluta. In un tempo però non stabilito a tavolino.

C'è però un grosso punto a sfavore in questo ideale di non-attaccamento, e pare essere proprio l'incapacità di lavorare goal-oriented. Che a lungo termine pare inficiare la motivazione generale verso la pratica, guidandola talvolta verso la dispersività.

E che non avendo aiutato nel maturare quella resilienza, dettata dal ripetuto sbagliare e riprovare dell'altro versante, rischia di deteriorarsi all'avvento delle prime serie difficoltà.


Qual è quindi l'approccio migliore, per fare di quel decantato bagaglio realtà e non illusione? Quello del mulo testardo e metodico, o quello dello spirito leggero che fa della sensazione il suo stendardo? Mi verrebbe da suggerire che il già citato approccio ibrido, applicato a questo frangente, sia la soluzione ideale... in quanto per me in parte lo è.

Questo non tiene conto però della diversità delle persone, degli schemi mentali innati o meno che ognuno adotta, dei talenti e degli svantaggi individuali, per cui il lavoro più grande e difficile è sempre quello di documentarsi, dello sperimentare, dell'imparare a conoscerci e di capire cosa funziona bene sulla nostra pelle, per noi stessi e in relazione alle nostre volontà più o meno profonde.


* si, c'è stato anche qualche infortunio di mezzo, ma in alcuna maniera determinante

** si possono fare anche tanti bei parallelismi con entità e frequenza dei carichi in rapporto a una funzione allenante o al rischio di infortunio

*** sappiamo benissimo che ci sono fior fiore di preparatori atletici che fanno raggiungere livelli di performance altissimi anche su elementi iper-tecnici/percettivi. Tuttavia spesso si tratta di specialisti di un set di gesti limitati, analizzati ossessivamente e generalmente ripetuti nello stesso medesimo contesto, da atleti selezionati “biologicamente” dall'agonismo. Poco a che fare con il Parkour e la sua variabilità di scenari, protagonisti e azioni.

domenica 16 maggio 2021

I miei 2 cents sugli infortuni nel Parkour

Sono fresco d'infortunio in una caviglia. Niente di nuovo, né di particolarmente grave. Di sicuro una noia evitabile che mi pone in una condizione di rallentamento, trattandosi di un punto debole al quale dedico da anni tantissimo lavoro per il rinforzo. E che, dopo brevi periodi di apparente completa guarigione, torna a presentarsi in circostanze sempre simili.

L'occasione è però buona per andare a completare delle riflessioni che già da tempo volevo esporre.

Il tema degli infortuni nel Parkour (Art Du Déplacement, Freerunning etc.), come in tantissime altre discipline sportive/attività motorie è uno dei più dibattuti. È molto raro difatti muoversi, a certi livelli di intensità e variabilità, senza incorrere almeno una volta nella vita in un piccolo infortunio.

L'amico Ghost lo sa bene e ne ha parlato sul suo blog in maniera molto schietta, qualche anno fa. L'invito è quello di andare a leggere il suo post, perché per quanto possibile cercherò di ampliare l'esperienza collettiva sull'argomento senza ribadire ciò che già è stato scritto altrove.




Le tre sorgenti d'infortunio nel Parkour


Inesperienza. Impazienza. Disattenzione.

Senza tanti giri di parole, questo è il sunto di ciò a cui sono arrivato nello spiegarmi il perché le cose accadano e del perché spesso siano ricorrenti.
Ne ho una certa esperienza perché ovviamente ho tantissimi infortuni pregressi, che non sempre posso dire di aver subito senza che a provocarli non ci fosse una certa componente di stupidità e ingenuità nel rapporto causa/effetto di certe azioni.

L'infortunio per sfiga, invece, di fatto non esiste.

Già da subito qualcuno obbietterebbe che nel Parkour, l'infortunio per sfiga esiste eccome. Come quello di chi ha qualche problema genetico sconosciuto e di chi atterra su qualcosa che collassa inaspettatamente.

Realisticamente che percentuale rappresentano questi fattori nella totalità dei casi? Non è vero, poi, che la maggior parte di noi comuni mortali ha difetti genetici che porteranno comunque a qualche conseguenza? Che spesso tendiamo ad ignorare finché la frittata non è fatta? Non è vero che, ad andare a guardare queste cose bene nel dettaglio, si scopre che c'è sempre un fattore d'inesperienza a fare la comparsa?

Essere colpiti in volo, che ne so, da una cagata di un gabbiano, rimanerne accecato, toppando in pieno un atterraggio difficile. Questo può essere identificato come "sfiga". Ma sappiamo che l'improbabilità di questo evento lo rende pressoché ininfluente, in una qualsiasi stima statistica. Ecco invece perché parlerò di queste 3 componenti, che a mio parere rappresentano il fulcro dell'evento d'infortunio nella pratica del Parkour.

Inesperienza

Non sapere cosa succede se si compie una certa azione per la quale non si hanno sufficienti dati. Non conoscere la conseguenza di piedi troppo alti in un catleap su una parete particolarmente ruvida, con una presa superiore polverosa o dagli angoli smussati. Non conoscere le dinamiche di un precision con i piedi troppo avanti su una sbarra scivolosa. O del continuare a sollecitare pesantemente un tendine ben oltre la sua capacità di recupero.

L'infortunio per inesperienza è la madre di tutti gli infortuni. È quello meno facilmente evitabile, perché evitarlo vuol dire soprattutto sottrarsi ad un processo di apprendimento (spiacevole), che ha come scopo quello di renderci maturi e consapevoli. Probabilmente è anche la causa di danno più frequente nella popolazione giovanile, alla ricerca, spesso spietata, dei propri limiti individuali.

Un buon maestro dal mio punto di vista non è una mamma chioccia che cerca di prevenire qualsiasi evento negativo nei suoi allievi. Piuttosto è una persona che educa al saper analizzare certe dinamiche e che soprattutto permette loro di sbagliare, dando un perché valido all'errore. Magari in maniera controllata e più sicura possibile, ma non priva di conseguenze e del loro carattere educativo.

Impazienza

Tra gli infortuni, della mia esperienza di Parkour e di vita, uno dei miei preferiti. E uno di quelli che spinge a maturare più esperienza nel far combaciare il livello di sfida adeguato al proprio livello di preparazione effettivo.
È quello che caratterizza i praticanti più giovani, ansiosi di equiparare gli standard sempre più assurdi dei video di maggiore diffusione, ma anche gli ostinati che ripongono un’altissima aspettativa in sé stessi.


Per i "vecchi" come me, che hanno maturato sia una certa sensibilità nel voler adottare un buon standard qualitativo di movimento, sia una certa quantità di legnate per la fretta del progredire, è vero ormai l'opposto.
Si ha troppa pazienza, che spesso fa posare il culo nella propria zona di comfort del "lavoriamo bene che i risultati arrivano". Cosa, che se non si accompagna ad una vera capacità di costruire il proprio allenamento in maniera funzionale, si trasforma solitamente in un autoinganno di propedeutiche reiterate ad oltranza, o di volume a vuoto.


Ecco che, dal mio punto di vista, i praticanti anagraficamente (ma anche psicologicamente) opposti devono saper consapevolmente muoversi in un punto a metà tra gli estremi: per poter diminuire l'impatto negativo sui propri corpi (nel voler sempre forzare la mano) i primi, e per poter sfidare le proprie narrative di "anzianità" i secondi. Ritornando a crescere dove non si pensava più possibile.


È probabilmente una visione utopica la mia: non solo è indiscutibilmente legata a dei fattori esperienziali individuali, ma anche al voler mettere in discussione i propri dogmi personali/culturali. E al voler affrontare con onestà la natura reale dei propri limiti.


Disattenzione

Il più frustrante. Quello che si presenta in maniera più insidiosa, nelle giornate di stanchezza che magari si fanno fatica a valutare come tali. Che va a colpire i punti deboli, già normalmente esposti a tutti gli altri fattori (se non frutto di questi). Spesso senza neanche lasciare la magra consolazione che una vera e propria abilità sia stata testata.

Ho poco da dire su di questo tipo di infortunio, presente nel Parkour e non solo. Perché spesso imporrebbe di non allenarsi se non quando si è al 100% di presenza mentale e fisica. Il che in me equivalerebbe ad allenarsi un paio di settimane all'anno.

Di sicuro l'esperienza può giovare, nell'evitare più possibile che questi eventi si presentino.

Ricercare sfide impegnative, nelle giornate di poca presenza, può essere paradossalmente più sicuro che dedicarsi ai "movimentini". Che nascondono l'insidia di un atterraggio irregolare per una caviglia (e una mente) non particolarmente sveglia. O a drills monotone e poco intense, che in combinazione con la noia possono portare a risultati amari.

Ma la verità è che questi sono veramente difficili da prevedere, salvo che il nostro livello di attenzione sia sempre elevatissimo in ogni momento.


Il sempiterno loop degli infortuni del Parkour

Il saper dare un come e un perché ci siamo fatti male non vuol dire che automaticamente questo non capiterà di nuovo. L'allenamento è un processo esperienziale che nei soggetti meno sensibili a certi eventi richiede una certa reiterazione dell'errore, al fine di maturarne una propria valutazione personale.

Le persone che conosco e con le quali mi sono allenato hanno tutte un loro approccio al dolore e all'infortunio nella pratica del Parkour. Alcuni ne hanno fatto apparentemente grande tesoro, e hanno scelto di dove stabilire il limite in cui il proprio corpo potenzialmente può risentirne in maniera acuta o particolarmente grave, usando la paura come metro di misura. Altri invece vanno avanti "a cazzo duro", prendendosi ciò che c'è di buono e cattivo da questo "metodo". Ma giudicare, in verità, non è affatto facile.

Magari quella che sembra ottusità e insufficiente capacità di razionalizzare
(o di memorizzare) certi eventi, in alcuni, in verità è espressione di una straordinaria capacità adattativa; nel non lasciare sedimentare i traumi nel profondo della psiche e nel saper andare oltre.
È forse fare buon viso a cattivo gioco, ma nell'essermi fatto male così tante volte nella vita (ovviamente mai in maniera totalmente irreparabile), ho imparato un po' cosa vuol dire lasciarsi alle spalle il peso di un trauma e l'attaccamento psicologico al dolore.

Ma è anche vero che, in questo processo di crescita, l'esperienza del trauma fa maturare i suoi nuovi limiti e prima o poi tutti ci troveremo a doverci confrontare con un'ansia demotivante. Nel metterci di fronte a qualcosa che prima sapevamo fare con confidenza, ma nel quale sussiste la consapevolezza d'errore.

Limiti che forniranno nuove barriere inconsce, atte a preservare il nostro corpo, che non vuole essere danneggiato. Barriere che dovremo scegliere se voler forzare e superare nuovamente. O accettare come tali in una nostra maturata, nuova, visione della vita.


mercoledì 14 aprile 2021

La segreta Arte dell'allenarsi

Una decade e passa trascorsa nella pratica del Parkour/ArtDuDéplacement/Freerunning (o come si voglia chiamarla), mi ha visto in un costante cambio di approcci, tecniche e metodi d'allenamento volti al solo scopo di potermi allenare più spesso, più in salute e utopicamente sempre in crescita.
 
Non è difatti nell'abilità del muoversi, nella grazia delle proprie piroette e nella sinuosità delle linee che ad ora trovo la vera arte del praticare, bensì nella pratica stessa: nella capacità di incastrare adeguatamente lavori diversi, nel poter trarre sempre il meglio da un'attività spesso "spot based", adattando i propri obbiettivi a contesti diversi. Nell'imparare ad ascoltarsi e ad ignorarsi al momento giusto.
 
Nutrire una pratica di movimento ogni giorno, in una fase della vita che tendenzialmente vede una direzione discendente di certi tipi di performance, legati a fattori più marcatamente giovanili (si non menatemela col fatto che i picchi di forza si maturano dopo i 30 anni, il Parkour non è solo 1RM), ha lo scotto evidente del vedere un pugno di risultati a fronte di tonnellate di ore di lavoro.
 
La mia condizione è quella di chi ha buttato via l'adolescenza (ed oltre) seduto davanti a degli schermi e che ora cerca di recuperare quel tempo andato perduto. Cosa che porta a sbattere il muso più e più volte su realtà evidenti: sarò sempre in crescita ma non sarò mai il potenziale atletico che avrei potuto essere, con questa dedizione, a 16 anni. "I to anni e i me skei" (i tuoi anni e i miei soldi), come dicono i vecchi qua: due condizioni che assieme raramente esistono.
 
Sostanzialmente poco me ne frega ora come ora. Superato quel rammarico delle occasioni mancate, quel percorso sempre in crescita che sto avendo nel Parkour (faccio fatica a chiamarlo così ormai, ma è comodo) è qualcosa che va ben oltre la sola performance atletica da "crazystunts" e "parkourvines", pur nutrendosi in grande parte del lavoro su questa.
 
È una chiave di analisi di me stesso, di ricerca di verità attraverso il movimento, di dedizione ad un'idea e di solidità nello spirito. Dettate da una volontà, che spinta a fatica negli anni e senza farla mai riposare, pare ora implacabile.
 
L'arte concreta è quella di poter nutrire questo processo, con i minimi intoppi ed una buona resa, giorno per giorno, di anno in anno, in un'ipotesi di miglioramento costante.
 
Nel pratico ecco qualche idea/suggerimento di cosa faccio attualmente per potermi muovere a questi ritmi e nella  mia condizione attuale.
Non è un programma da seguire. Si basa sulla mia esperienza e su tutto ciò che ho fatto in passato per ottimizzare il mio fisico debole ad una pratica tassante sul piano sistemico/articolare. Però, come sempre, qualcuno può trovarci qualcosa d'interessante.

L'arte del praticare Parkour: alcuni elementi

- Intensità: il caro vecchio low impact day, che può voler dire tutto e niente, in base a come ci si sente di volta in volta. Può voler dire evitare gli impatti più tosti o diminuirli in volume. O se ci si sente proprio giù corsetta leggera, danza, un po' di corda, quadrupedia senza ottica di challenge e zero impatti da salti. In linea di principio: movimento per curarsi dal movimento. Il che è sempre meglio che starsene a casa sul divano (al quale dedicherei solo le giornate in cui si è veramente KO).

Quando poi si fanno tante cose e si hanno delle routines frequenti, non si può sempre pensare di dare il 100% in ogni cosa fino alla fantomatica settimana di scarico. Ma neanche di mollare il lavoro ogni qual volta ci si sente sfatti. Piuttosto darci un 60% rispetto a quello che si darebbe di solito, che risulta un buon compromesso tra dovere e riposo.

- Variabilità: una volta pensavo non si potesse saltare ogni giorno, adesso lo faccio. Però mi rendo conto che è un processo di adattamento, che prima di una certa soglia non mi è stato mai facilmente permesso dal mio corpo (perlomeno a certi livelli di intensità e senza infortuni) e che è stato (ed è ancora) possibile grazie ad una certa variabilità introdotta sia nel saltare che nel muovermi in generale.

Nel pratico, ora che ho raggiunto un certo livello soddisfacente con lo stare in equilibrio sulle mani, spezzare con sessioni di verticalismo la frequenza di salto è un'opzione gradevole e che mi permette un relativo fattore di recupero.

Anche intervallare sessioni di salti specifici dove c'è più enfasi sul fattore esplosivo dello stacco, ad altre dove ci si concentra più sugli atterraggi e forti impatti, è una variabile che sto sperimentando che presenta una buona utilità anche sul fattore intensità/low impact. Ovviamente lasciando un po' l'istinto e l'esperienza alla guida, senza che vi sia una rigorosa programmazione da rispettare.

- Obbiettivi: scremate ciò che volete fare in base a quanto tempo potete dedicargli (a meno che non abbiate la plasticità d'apprendimento di un bambino talentuoso). Meglio avere poche certezze che un mucchio di possibilità appena abbozzate. Se poi come me non sapete scegliere, allora fatevi ispirare da ciò che vi va bene in un certo periodo, esauritelo nelle possibilità, rendetevelo facile e passate ad altro.

- Nutrimento: se il tuo carburante è di scarsa qualità o alla peggio se te ne manca o eccede, puoi sperare solo nella capacità adattativa del tuo corpo. Impara a mangiare, metti la testa su qualche concetto di base di nutrizione (macronutrienti, dieta bilanciata etc.), ascoltandoti bene e approcciando scetticamente tutte le diete miracolose propinate da internet, senza negarti qualche esperimento per capire cosa funziona per te.

- Costruzione forza: mettetevi l'anima in pace, i vostri salti saranno inevitabilmente sacrificati in questa fase. Anche se conviene sempre muoversi per tenere una linea continuativa alle tecniche e dare immediato transfert al lavoro (oltre che per testarsi psicologicamente), non pretendete l'assurdo da voi.
Il vostro fisico/cervello verosimilmente è già al limite dallo stress esercitato da squat, piegamenti e quant'altro fate, l'infortunio per sovraccarico o disattenzione dietro l'angolo. Piuttosto date una giusta misura al vostro allenamento della forza e al movimento libero, in maniera che l'uno non sia troppo impattate per l'altro.

- Impatti: pigliatevene. Se volete che il vostro fisico sia resiliente a questi, non c'è scusa ma dovete esporvici periodicamente, anche se non siete al 100% in salute (ma magari non al 50%). Ricollegandosi al fattore intensità, dategli la giusta frequenza e il giusto tempo di recupero nell'arco della vostra settimana di allenamento, in modo da ottimizzarne la metabolizzazione.

Infine: la pratica del Parkour (o di una qualsiasi pratica di movimento) è un contenitore-voragine al quale si sacrifica una notevole quantità d'energia, ma che se non è capace di restituirvene almeno un po' all'occorrenza, allora non va.
Significa che la vostra disciplina è un parassita più che un'entità in simbiosi con il vostro essere.

Cercate periodicamente il divertimento in ciò che fate, anche se non è il vostro focus principale. Ne beneficerete tanto nell'apprendimento che nel vostro benessere psico-fisico.
Altrimenti vi troverete nel ruolo di Atlante che regge la volta celeste sulle spalle per punizione divina, con la differenza che voi lo farete per scelta. Ruolo che se non vi calza bene (magari perché state caricando già altri pesi sulla schiena), verosimilmente vi farà arrendere al peso schiacciante di una pratica che non si vive più per piacere.



sabato 13 marzo 2021

Il guscio della tartaruga


Il "guscio della tartaruga" è una sfida che talvolta propongo a chi frequenta le mie lezioni. Si basa su quel grande classico che è Dragon Ball, precisamente sulla vicenda del giovane Goku che si reca nell'isola del Genio delle tartarughe per essere da lui allenato. Questi dota i propri studenti di un pesante guscio di tartaruga col quale dovranno convivere ed allenarsi per un lungo periodo; lo scopo, ovviamente, è quello di maturare forza sotto lo stress indotto dal sovraccarico costante per poi essere ancora più forti una volta liberi.



Il guscio della tartaruga da me proposto alle lezioni si compone di 3 gruppi di semplici esercizi di base (piegamenti/squat/core) di differenti intensità che i ragazzi sceglieranno individualmente in base al proprio livello d'esperienza. Questa breve routine d'esercizi dovrà essere eseguita per un numero specifico di volte nell'arco della settimana, nonchè durante vari momenti della lezione, quando chiamata casualmente dal coach.

Tralasciando l'aspetto sempre pratico del fare allenare i ragazzi in questi gesti fondamentali di forza, quello di allenarsi nei gesti parkour-specific con uno stress indotto in precedenza (fattore spesso dubbio per il lato qualitativo-tecnico, ma sicuramente valido per quello psicologico) e l'educare ad un lavoro che non termina con la sola partecipazione al corso, sono lo scopo principale di questa sfida.

Io per primo ci metto la faccia in questo campo, avendo sempre dato grande valore al lavoro sulla forza ed avendoci dedicato periodi decisamente estenuanti.
Il mio "guscio" periodico è difatti attualmente concluso, tralasciando alcuni lavori sulla mobilità che continuerò a proseguire, seppur con meno frequenza, per continuare il bel lavoro in opera (oltre che l'immancabile verticale).

Condivido dunque con voi questa routine, pressapoco quella che ho sviluppato e seguito negli ultimi 4 mesi e per la quale ho "beneficiato" di una maggiore disponibilità di tempo dettata da una notevole diminuzione di lavoro nell'ultimo anno. Come per tante altre persone questa situazione è stata (e continua ad esserlo) tragica dal punto di vista monetario, ma non nego di aver felicemente colto l'opportunità per lavorare su obbiettivi trascurati e lacune che da troppo tempo aspettavano di essere colmate.

A voi dunque la routine.

Il guscio della tartaruga: allenamento della forza per il Parkour


LUNEDÌ: mattina - allenamento libero destrutturato (1.30/2 hr) sera - esercizi respiro/concentrazione e routine mobilità con sovraccarichi (focus su pike, pancake, ponte, spaccata frontale + vari complementari) (1.30 hr)

MARTEDÌ: mattina - back squat / military press / forza intrinseca piedi / rehab varie (1.30/2 hr) sera - (se ritorno a casa ad ora discreta) sessione stretching in scarico focus su complementari e relax (30 min)

MERCOLEDÌ: mattina - allenamento libero parkour specifico (1.30/2 hr) sera - esercizi respiro/concentrazione e routine mobilità con sovraccarichi (focus su pike, pancake, ponte, spaccata frontale + vari complementari) (1.30 hr)

GIOVEDÌ: mattina - verticale / mobilità toracica / spaccata frontale / rehab + complementari mobilità verticale (1.30/2 hr) sera - (se ritorno a casa ad ora discreta) esercizi respiro/concentrazione e sessione stretching in scarico focus su complementari e relax (30 min/ 1 hr)

VENERDÌ: mattina - allenamento libero parkour specifico (1.30/2 hr) sera - esercizi respiro/concentrazione e routine mobilità con sovraccarichi (focus su pike, pancake, ponte, spaccata frontale + vari complementari) (1.30 hr)

SABATO: mattina - routine anelli (archers pullups e dips / muscle up) giocolieria / capacità di reazione (1.30/2 hr) sera - allenamento libero parkour specifico (2/3 hr)

Non mi soffermo sulla natura degli obbiettivi perseguiti, trattandosi perlopiù di mantenimento di vecchi livelli di forza raggiunti in passato e di modalità di allenamento "ibride". Gli unici che segnalo sono il perseguimento di 1' di verticale libera, 3 ripetizioni 100 kg in back squat con rom più esteso possibile, 30" a 30 cm in spaccata frontale libera. Obbiettivi "modesti" (per la mia età ed intensità di pratica), non lavoro esclusivo di questi 4 mesi, bensì lacune ed altre cose alle quali giravo attorno da troppo tempo senza concludere.

Ora che mi sto liberando di questo guscio assieme a quello più grande che è l'inverno, poso dire di aver speso bene questo periodo, talvolta angosciante per l'intensità e l'affanno generatomi, constatando una rinnovata qualità di movimento e quantità di forza che pian piano sto tornando con gioia a tramutare nella pratica specifica del Parkour.

martedì 16 febbraio 2021

Parkour Therapy? - Una guida: Parte III

 Precede: Depressione & Parkour e Parkour Therapy? - Una guida: Parte I e II

PARKOUR E DEPRESSIONE - LE PRATICHE COMPLEMENTARI:

Con questo capitolo giungo infine alla conclusione di questa "guida" alla Parkour Therapy, descrivendo due delle pratiche di fondamentale aiuto nel minimizzare l'impatto negativo della depressione nella mia vita (ed apparentemente a guarirne) e alle quali sono arrivato tramite le arti di movimento alle quali mi dedico.

Scrivo apparentemente perché so bene che la mia mancanza di competenze professionali e di strumenti diagnostici può fare sembrare naïf una qualsiasi pretesa di aver trovato una cura ad una malattia complessa in maniera pressoché autonoma.

Il fatto innegabile è che allo stato attuale sto bene e in maniera stabile, nonostante la maggior parte dei problemi legati alla mia vita (dal lavoro, alle relazioni, all’abitazione) siano ancora là ad affliggermi. È semplicemente cambiato il mio approccio a questi, è scomparsa la voglia di non mettere il naso fuori dal letto al mattino, per non dovermici confrontare ogni giorno. La voce che vuole sottolineare l'inutilità di tutti i miei sforzi, in qualunque direzione, è perlopiù silenziosa e le avversità le vivo senza catastrofismi e tutta l'angoscia di prima.

 

Pretesa o no che sia, non è stato facile. Sintetizzare tutto il processo di un decennio in una breve guida ha il valore che ha, rispetto agli sforzi da mettere in campo, agli errori da compiere e alle ricadute che un individuo deve affrontare per poter giungere ad una risoluzione positiva dei propri conflitti.

Qualcuno potrebbe dire che con un buon professionista non avrei dovuto "buttare" un decennio per risolvere qualcosa che avrei potuto sistemare in pochi mesi. Ma di fatto è così facile trovare quel professionista giusto per noi? Hanno tutti le risorse per poter essere seguiti ed aiutati? Un aiuto esterno in certi ambiti non rischia di renderci dipendenti da chi ci dà la cura?
Sappiamo bene di cosa stiamo parlando, perché questo argomento è lo stesso che riguarda l'allenamento, l'alimentazione, la riabilitazione e qualsiasi altro campo in cui ci sia utile un esperto per migliorare.

Eppure l'aspetto più bello di tutto questo è che coscientemente questo risultato non me lo sono cercato, in quel esatto momento in cui mi son calato in questa disciplina. Ho seguito questo percorso perché mi è stato naturale e perché è sorta una forte passione, e in questo ho casualmente trovato delle chiavi per aprire delle porte del mio benessere, prima sigillate.

E in tutto questo ho imparato tantissimo, fatto esperienze incredibili e conosciuto persone straordinarie; per cui comunque un decennio della mia vita non è stato "buttato", a dispetto di cosa possa dire il pragmatismo più feroce della nostra società.

La cosa più naïf che possa fare è il credere che questo benessere sia venuto solo dallo stabilire una relazione equilibrata col Parkour, non dall'età più matura in cui sono (che ha portato ad una risoluzione autonoma di molti dei miei conflitti interiori) e dal miglioramento di altri aspetti della mia vita.
Quali quello dello studio e della ricerca, nella vita e nelle opere di artisti e filosofi di ogni sorta, di quelle verità "utili" sull'arte dell'esistere (psicanalisi di C. G. Jung su tutti), non sempre di pubblico dominio.

Ancor più ingenuo è credere che questo benessere non sia uno stato momentaneo da preservare e sul quale vigilare costantemente, talvolta anche da testare fuori dalla zona di comfort per capire se sia fittizio o meno.

Come avete ormai capito amo i lunghi preamboli, ma è ora di concludere questa parte (ormai protagonista del post stesso) e di andare a vedere quali siano queste pratiche complementari a quella del Parkour/ADD/Freerunning e come di fatto rivestano un ruolo così determinante per il mio benessere.


- Allenamento della forza

Nella pratica del Parkour, allenare la forza generale del mio corpo non è stato solo un'"espediente" per migliorare la propria performance, ma in larga scala il Parkour stesso. In questo campo i primi anni di pratica sono stati dedicati alla resistenza sfibrante e dolorosa alternata alla gestione "a cazzo" di carichi intensi, della quale non sempre il mio corpo ha beneficiato, ma che di sicuro sono stati fucina per un lavoro in divenire più mirato e consapevole.

Quando ho iniziato a sperimentare i primi lavori con sovraccarichi e a delineare una programmazione rudimentale ma ben definita nelle fasi e negli obbiettivi, per l'incremento dei miei livelli massimi di forza, mi ci son dovuto approcciare con cautela, al fine di minimizzare l'impatto sugli infortuni già presenti e la possibile insorgenza di nuovi, dettati dalla mia inesperienza.

Sebbene le cazzate e gli errori anche qui non si contino, grazie ad un intenso nerding e alla frequentazione di
persone studiose (se non addirittura competenti), dalle quali raccogliere consigli e pareri, per la prima volta nella mia vita ho iniziato a sperimentare cosa volesse dire crescere in maniera graduale e controllata, con i giusti picchi di lavoro ed intervalli di recupero, in un processo sempre monitorabile e decisamente più sostenibile dei mix letali ed incostanti ai quali mi sottoponevo in precedenza.


Ma torniamo al tema portante: perché questa pratica ha in me rivestito
un ruolo così terapeutico nei confronti della depressione?

Di sicuro nell'avermi fatto sperimentare i livelli più alti di auto-disciplina di cui fossi al tempo capace, specie nell'ottica della costanza e del no excuses (della cui importanza mi sono dilungato nei precedenti post).
Poi avendomi abituato alla gestione (ordinaria e non) della vita con livelli di fatica sempre più elevati.
In maggiore misura per avermi riabilitato da infortuni storici apparentemente inguaribili, ripristinando efficienti linee di forza e permettendomi risultati atletici di cui non mi reputavo più capace.

MA SOPRATTUTTO per quel lavoro neurale che esplode quando si iniziano a gestire carichi molto intensi in maniera progressiva, di fatto "forando" le soglie precedenti di carico.

Non parlo solamente dell'impatto psicologico del contrastare la gravità al suo peggio e dello spingere per risalire col mondo sulle spalle a schiacciarvi (per fare l'esempio del backsquat).

Parlo di qualcosa di più in larga scala. Che assomiglia al breaking jump ma che non lo è. Che coinvolge ormoni, intensa vascolarizzazione, "freschezza" e lucidità mentale e la sensazione potente di nuove connessioni neurali che si sono create a migliorare mappe motorie e a ottimizzare il funzionamento di tutto il nostro essere, mente e corpo.

Un processo che stimola al massimo i nostri processi adattativi intrinsechi e che ci fa dire, dal profondo della nostra biologia, "io sono vivo e voglio esistere!". Non lasciando di fatto alcuno spazio alla tetra pulsione alla resa e all'auto-estinzione, che caratterizza nel profondo la depressione.


- Meditazione

Alla meditazione sono arrivato già nel 2011 grazie a Stéphane Vigroux. Passato il grande entusiasmo iniziale, ho perseguito questa via sporadicamente per quasi un decennio. Fino a quando l'anno scorso mi ci sono riapprocciato con maggiore attenzione, decidendo di renderla elemento fisso della mia vita, con cui iniziare ogni giornata, e di dedicarci alcuni brevi studi essenziali, al fine di non perdermi in questo terreno gigantesco da me poco esplorato.

Perché il campo della meditazione è veramente vasto e si affaccia direttamente a quel grande contenitore del conscio e dell’inconscio, delle nostre personalità e dei nostri desideri che è l'Io.
Senza neanche delle semplici linee guida, affrontare questa pratica in autonomia è paragonabile all'imparare a guidare un'auto completamente da zero, senza maestri né istruzioni. Il solito percorso da autodidatta con tutto ciò che consegue in errori, facili plateau e possibili abbandoni, ma anche maggiore abilità di apprendere in maniera veloce e funzionale.

Se quindi un po' di studio (per calibrare a nostro favore l'essere maestri di sé stessi) ci può risultare quasi un obbligo, riuscire a stabilire degli obiettivi è altrettanto fondamentale, non essendoci una direzione univoca alla quale ambire ma una vasta gamma di possibilità a volte in conflitto tra di loro... proprio come in una pratica "aperta" come quella del Parkour, ma in ambito prettamente metafisico.

Fissarsi un vago e generico raggiungere l'illuminazione può risultare facilmente uno dei vari modi con cui prenderci in giro, se non affrontiamo il percorso con serietà, severo studio e magari cercando un maestro competente.

A seguito di tentativi ed indagini su di me e sul mio bisogno di limitare l'impatto negativo della mente sulla mia persona, i miei obbiettivi si sono dunque rivelati essere i seguenti:

- limitare il flusso dei pensieri nevrotici (overthinking), calandomi di più nel presente del "qui ed ora";
- rendersi consapevoli dei meccanismi che stanno dietro i propri modi di agire e pensare, maturando distaccamento da tutte le forme mentali avverse che popolano la propria personalità;
- fare emergere la propria identità più profonda e reale, sepolta da strati di spazzatura mentale, attingendone energia e creatività, oltre che una conoscenza globale di sé stessi più estesa.



Anche questo lavoro ovviamente non è facile. Apparentemente senza un maestro nella filosofia buddista non si può giungere al Nirvana, ma anche solo concentrarsi sul respiro e svuotare la mente non è cosa semplice da farsi in autonomia. Aggiungeteci l'ostacolo della postura, dopo pochi minuti decisamente dolorosa se non si possiede già una mobilità specifica molto buona.

Il mio primo tentativo di meditazione quotidiana per un periodo ininterrotto si è risolto da una grande enfasi iniziale ad un periodo di altissimo stress e latente rabbia esplosiva, dal quale ho desistito, dedicandomi subito allo studio di qualche metodo in maniera più approfondita e ritentando un mese dopo, con maggiore chiarezza ed avvicinandomi infine alla direzione ricercata.

Ad ora questo della meditazione si è rivelato uno degli strumenti più efficienti di autoanalisi e di adozione di uno stato mentale sereno e produttivo. Nonostante sia conscio dei grandi limiti del non avere una guida vera e propria (e dell'aver raggiunto già una sorta di stallo), l'interesse e la fiducia in questa pratica come mezzo, che già mi ha portato ad un livello impensato di stabilità psichica e pensiero pulito, non può altro che rinforzare la mia volontà di dedicarci ancora a lungo l'attenzione e lo studio che merita.

RIASSUNTO  o Tl;Dr

Siete arrivati fin qui? Complimenti! La lunghezza e talvolta pesantezza di questa guida di certo non è stata facile lettura. Tuttavia se siete qua è perché cercate qualcosa di utile a voi stessi e non è detto che qualcuno voglia
sempre rendere il compito facile!

Tuttalpiù che queste considerazioni sono costate di più che pensieri occasionali, ma anni di tentativi, errori ed osservazioni... questo è anche un buon reminder che il processo di miglioramento, dopo che si estrapola la "nozione" dall'esperienza altrui, è una strada tutta in salita.

Non mi risparmio comunque un riassuntino semplice ed immediato a chiudere questa piccola guida:

Usiamo ciò che facciamo per volerci bene, ma impariamo anche a riconoscere ed accettare ciò che di male ci può causare.
Prendiamolo come strumento per imparare a vivere, anziché come rifugio per nasconderci dalla vita.
E non confondiamo un farmaco che allevia i sintomi della malattia con la sua cura definitiva!



sabato 6 febbraio 2021

Parkour Therapy? - Una guida: Parte II

Precede: Depressione & Parkour e Parkour Therapy? - Una guida: Parte I


L'INFLUENZA NEGATIVA DEL PARKOUR SULLA DEPRESSIONE

 

- Ossessione per la performance

Quando accettiamo nella nostra vita la sfida di un qualcosa che deve produrre un certo risultato tangibile, è inevitabile che ci troveremo a confrontarci con una serie di aspetti sgradevoli.
Aspettative non ripagate, confronto con gli altri, dubbio verso la nostra costanza e le nostre capacità. Nella visione per estremi di chi fa dell'atleticismo e del risultato il centro della propria pratica, si dovrà inevitabilmente imparare a gestire tutti questi aspetti senza esserne sopraffatti, pena plausibile l'arrendersi.

Riuscire in qualcosa per me è sempre stato di vitale importanza. Allo stesso tempo il desiderio di sbloccare salti di continuo, dell'inseguire un'ideale di pratica pura ed estrema, si è più volte presentato come una tentazione così grande da prendere il sopravvento su qualsiasi altro aspetto del Parkour.

Questo ovviamente mi ha portato a sbattere - più volte - la testa di fronte al
la realtà che la mutevolezza delle varie condizioni (fisiche, psicologiche, ambientali) che sono terreno per uno stato atletico ottimale, non sempre rendono la performance lo specchio più affidabile del nostro progredire come persone e del sentirci bene e in pace con noi stessi.

Riconosciuto questo enorme limite dell'ossessività per il risultato ho deciso quindi di toglierle quella posizione centrale nella mia pratica. Pur non negandole quel ruolo fondamentale che possiede, in una disciplina fisica alla cui base sta l'idea di crescita.

Mi prefiggo piuttosto di perseguire questo elemento con onestà, e la consapevolezza che non possiamo essere forti su tutto, né tutti campioni. Specie se siamo tra coloro che possono dedicarci un tempo limitato.
C
erco anche di tenere a mente che perdermi in un nugolo di obiettivi confusionari e spesso non propri, non sempre giova all'autostima... semmai lascia l'idea sgradevole di un pugno di mosche in mano.

Ciò che facciamo deve possedere la capacità di auto-ispirarci e darci la chiara sensazione che, anche di poco, stiamo crescendo. Deve diventare lo specchio in grado di restituirci l'immagine di noi più vera possibile (non quella narcisistica dei social o delle nostre aspettative), con la quale confrontarci in tutti gli aspetti in cui siamo maturati e in un arco di tempo molto più lungo del semplice quotidiano.

- Fuori comfort prolungato

Per chi come me è cresciuto nel dogma del test costante, in cui una cosa la sai fare veramente solo se la sai fare in ogni condizione, la sfida con la paura e il limite diventa componente di ogni allenamento e suprema chiave di crescita. Altrettanto facilmente, come per la performance, anche questo dogma rischia di dominarci, facendoci perdere quel processo complicato che è il dialogo con noi stessi.


Lavorare frequentemente fuori comfort, con
elevati volumi ed alte intensità (emotive oltre che meccaniche), è causa di un livello di stress generale considerevolmente alto, specie se siamo in quella fase della vita in cui non abbiamo la giovane ferocia dalla nostra e di contro maggiore esperienza dell'errore e di un corpo "vissuto".

L'approcciarmi costantemente
al mettersi in situazione di test, ignorando il dialogo interiore, ha nutrito nel tempo un effetto opposto a quello ricercato... arrivando ad essermi causa di stanchezza e agitazione anche nell'affacciarmi a situazioni "mentali" già affrontate. Oltre che rendendomi tendenzialmente più teso e nervoso in vari momenti della giornata, senza apparente motivo*.

Cosa, questa, della quale ho preso coscienza solo negli ultimi anni, in parte imputata ai vari mutamenti fisiologici dell'essere più vecchio e meno "duro".
Riguardando, però, all'insieme della mia esperienza
con oggettività, questa situazione si rivela essere sempre stata in varie misure una costante, da me spesso fraintesa come il processo vero e proprio. In effetti parte integrante della ricerca del proprio limite, ma anche frutto dell'inesperienza nell'autoregolarsi e dell'ambizione selvaggia.

Il perpetrare ostinatamente questa logica del test, non mi ha risparmiato di trovarmi sia in situazioni di infortunio che di inaspettato overtraining**, anche a poca distanza da un periodo di scarico, con un evidente peggioramento della performance ed, al suo culmine,
in occasionali ed allarmanti tachicardie all'ostinato tentativo di "spingere".

In questa condizione il sistema nervoso non ha fatto che risentirne. In un clima generale di affaticamento e di difficoltà varie, si è stabilito un loop alternante
di brevi periodi di energica iperattività ad altri di indolenza, sconforto ed autosvilimento, senza un sostanziale e lineare miglioramento in alcuna direzione, bensì con la comparsa di vari stati depressivi di ritorno.

Alla luce di questo, preciso che il mio non è un invito a non testarsi, anzi. Continuo a credere che l'uscire fuori comfort, quanto il lavorare sulla performance, possegga un ruolo di primo piano nella pratica e sia la chiave principale per poter crescere e superarsi. Credo an
che che questo processo talvolta vada portato oltre il consueto.

Tutto ciò però non deve avvenire senza un sincero ascolto di sé e l'essere contestualizzato (
senza scuse) a come ci sentiamo e a quanto siamo allenati, per poi essere porzionato nella giusta misura - ed infine integrato - nel nostro allenamento.

In sintesi, se c'è una certa assiduità nel nostro modo di allenarci o il fattore determinante di una vita già di per sé intensa e stressante, l'uscire fuori comfort è un parametro che non dovrebbe essere lasciato totalmente al caso o all'ostinazione... bensì ad un accurato ascolto di noi stessi e dei nostri bisogni reali.

I quali non escludono la nostra volontà di maturare un'attitudine coraggiosa e forte, ma rendono il nostro lavoro consapevole e misurato: meno causa possibile di stallo e malessere, più utile ad una nostra crescita felice e sostenibile.

*ovviamente ciò non può essere imputabile a questo solo fattore, soprattutto se già c'è una base di generale tensione psichica. È comunque una correlazione che ho stabilito empiricamente avendone notato la prossimità con periodi di forte allenamento e lavoro fuori comfort.
** che in verità é overreaching non funzionale, sebbene erroneamente identificato con l'overtraining


Infortuni

Sappiamo tutti che mediamente il Parkour praticato come disciplina ha statisticamente una bassissima casistica di infortuni gravi. Per chi invece persegue la disciplina come sport finalizzato all'agonismo e unicamente alla performance, il discorso può essere ben diverso.

Come citato in precedenza, l'ossessione per la performance o per l'attitudine ad ogni costo, è una forte spinta verso la depressione, specie quando il prezzo è l'irreparabilità di un danno.

Allo stesso tempo ognuno di noi, do o jutsu che sia, ha nella sua esperienza distorsioni, stiramenti, infiammazioni croniche ed altre amenità che rendono spesso la nostra pratica un continuo, sofferente adattamento e che soprattutto ci danno consapevolezza di una certa inevitabilità dell'infortunio stesso. Questo ci obbliga a sviluppare un certo dialogo e rapporto con il dolore che diventa fondamentale per un sereno proseguo nella disciplina.

È idealistico, pensare di vivere in un mondo in cui non troveremo il dolore ad attenderci da qualche parte, sebbene la nostra società, demonizzante di tutti quegli aspetti negativi intrinsechi alla vita stessa, voglia farci credere il contrario.

Sapere accettare (entro una certa misura) la presenza di dolore nella nostra vita è una abilità di spicco per la nostra sopravvivenza. Imparare a sbagliare, farsi male e ricostruire anche decine di volte, fronteggiando sempre di più in maniera positiva l'avversità è infine  resilienza nella sua forma più pura.

Questo però è un processo che, anche senza ricercare sfacciatamente il danno, paradossalmente ci porterà a sostare in un temporaneo stato di malessere psicofisico che, finchè non affrontato fino ad una sua risoluzione positiva, non gioverà di certo alla nostra autostima e pace interiore.

Questo degli infortuni e del rapporto col dolore, è infine un argomento complesso, tra i più significativi nella storia individuale di ognuno di noi (che pratichi Parkour o meno).
Per la quantità enorme di aspetti di cui discuterne, è mio desiderio approfondirlo con un futuro post dedicato.



- Abuso di libertà

La libertà, nel Parkour, è uno degli elementi più amati e spesso fraintesi da chi pratica. Gli abusi vari che ne derivano possono portare alle situazioni più al limite e controverse che aleggiano sopra la nostra immagine pubblica, con tutte le ripercussioni del caso.

Tra tutte le forme "degenerate" di questa condizione restringerò il campo, riallacciandomi ad uno degli argomenti del post precedente, andando nello specifico a parlare di quella condizione di abuso di libertà che deriva dalla forte mancanza di autodisciplina.


Nella mia esperienza personale, la disciplina nell'allenamento ha avuto un ruolo importante fin dall'inizio. Lo svolgimento meccanico di un allenamento
strutturato ha avuto sempre più come scopo quello di "educarmi" che la funzionalità stessa dell'allenamento.

Negli anni, avendo maturato allergia alle strutture (per l'esercizio costante di queste attraverso il coaching), volendo mettere in discussione i vecchi dogmi e subendo l'influenza sfiancante del flagello degli infortuni, questa capacità di autodisciplinarsi è talvolta venuta meno: più incostante e confusionaria, a volte produttiva, a volte dannosa.

Non fraintendetemi, do grande valore alla libertà nell'allenamento:
All'affinamento delle sensazioni, dell'esplorazione e della capacità di farsi guidare istintivamente verso le sfide giuste per noi.
Non potrei altrimenti considerare come bello e vitale ciò che pratico senza questo aspetto ricorrente di "mancanza di piani".

L'autodisciplina non nega la libertà, ne sancisce un limite.

Ci sono volte che mi trovo a confrontarmi col fatto che, perseguendo una pratica basata unicamente sull’istintività e sull’ispirazione,
senza piani né struttura, potenzialmente potrei trovare la realizzazione massima di me come persona in movimento.

Allo stesso tempo, una persona deve essere onesta con sé stessa per capire di cosa necessita e che lavoro deve fare sulla propria persona, oltre che sul proprio corpo.
Per me l'autodisciplina è il tenere lontano quella "
sensazione di buttare la vita e il tempo in seno alla pigrizia" che "è carbone nella caldaia della depressione", come citato nello scorso capitolo.

Ma il ruolo più grande esercitato da questa pratica (al di fuori dell'aiutarmi a correggere i miei comportamenti autolesivi) è quello di continuare a nutrire significato per ciò che faccio, attraverso tutti i suoi riti che sanciscono un impegno costante ed inderogabile, base per la fiducia di sé e di un cambiamento monitorabile.

Perché la perdita di significato di un qualcosa di prezioso è ciò che temo di più, nel suo subdolo nascondere il nulla più buio.

L'esercizio della libertà pura è quindi una vetta utopica alla quale ambisco dopo aver portato la disciplina al suo miglior compimento per la mia persona.
Altrimenti temo il pericolo della vaghezza, che la libertà spesso porta con se, nella quale è facile perdersi nell’inconcludenza e nel non riuscire a direzionare la propria vita con decisione.


- Rischio di auto-emarginazione

Che sia da soli o con le proprie cerchie, la pratica è una gabbia dorata, una bolla di benessere nella quale ricerchiamo bei momenti e serenità, se non la grande soddisfazione dello spingere oltre i propri limiti.

Come ogni gabbia dorata, il Parkour possiede la capacità temporanea di isolarci dalla realtà. Se la nostra pratica è occasionale, questa possibilità non può che esercitare una funzione positiva, ma se siamo totalmente immersi in questo terreno e il nostro comfort di pratica è
in solitario o con pochi compagni, il rischio è di perdere una solida presa sulla realtà e di alienarci dal resto del mondo. 

La figura del praticante solitario, che popola gli spazi urbani in maniera completamente diversa dal resto dell'umanità, è un immagine indubbiamente affascinante a molti pionieri e non solo.
Scarpe devastate, che portano le cicatrici di mille muri, pantaloni consunti e bucati, graffi sulle braccia sono le medaglie con le quali molti di noi valutano il proprio essere "true".
Per buona parte di noi è solamente questione di praticità, anziché dell'ostentare un’attitudine: non ci si può permettere materiale sempre nuovo e vestiti pregiati che inevitabilmente, nel giro di pochi allenamenti, si finiranno per danneggiare.

Tuttavia l'immagine che per noi risulta ideale non sempre ci viene restituita da quello specchio, che spesso è la società, come "vincente". Anzi.

Nel qual momento iniziassimo ad identificare il nostro io praticante con tutta la nostra vita, il rischio di scivolare nell'ottica di trasandatezza ed isolamento del "lupo solitario" inevitabilmente prima o poi, in base ad un mutamento della nostra percezione, potrebbe diventare un pesante macigno sulle nostre spalle.
A meno che, ovviamente, non siamo coscientemente seguaci di Diogene "il pazzo".

Rifiutare l'aspetto di relazione con gli altri (che siano praticanti o la società che ci circonda) significa chiudersi al confronto ed isolarsi sempre di più nella propria "bolla" che rifiuta la realtà.
Aprirsi allo stesso tempo ha il costo di sacrificio di una parte della nostra individualità alla quale siamo faticosamente arrivati nella ricerca di noi stessi: è il paradosso del doversi conformare agli altri per continuare a nutrire la propria crescita!

Come ogni altro aspetto della vita, anche questo processo di integrazione necessita di sforzi, specie nel dover venire a patti con persone con le quali abbiamo poche affinità di obiettivi. Cosa che può succedere riconoscendo quei punti comuni che possano creare un terreno di scambio e condivisione, senza per forza dover cadere nel conformismo becero e spersonalizzante che non insegna alle persone la diversità.

Ma facendo di alcuni aspetti sociali basilari come la cura di sé e del senso di comunità, altro grande strumento per imparare a volersi bene.



Segue: Parkour Therapy Parte III - Le pratiche complementari