sabato 23 novembre 2019

STORIA DI UN SALTO

Vago per il parco, alla ricerca di voglia di allenarmi.
La testa è da un'altra parte, arrivo al primo posto designato, voglio filmare qualche passaggio interessante ma sono poco ispirato. Umidità e scarsa luce mi deprimono. Ad un tratto torna in testa un vecchio salto da sempre immaginato, in una zona relativamente asciutta ed illuminata del parco. Capisco che è una di quelle giornate nelle quali “il coraggio va rinnovato”, e che l'unica modalità di lavoro che sento possibile è proprio una di quelle che mi obblighi a dare tutto me stesso.

Gli ingredienti ci sono tutti: senso di sopraffazione -di non farcela nei miei progetti e di soccombere a vecchie e nuove difficoltà-, scarsa energia mentale e fisica, il buio strisciante in giornate sempre più corte. Da qui la necessità di un atto che mi dia la forza, la decisione e l'energia che mi servono per poter rompere quella morsa che mi stringe lo stomaco.

Mi dirigo dunque all'arena d'acciaio - teatro tanto vero quanto figurativo della mia imminente battaglia -. È questa un'ampia struttura semicircolare a gradoni, interamente di metallo, contornata nella parte più alta da una balaustra che si affaccia nelle estremità, e a qualche metro dal suolo, a due lampioni-obelisco dello stesso materiale, entrambi modulati a griglie quadrate.


Il riscaldamento è nullo, giusto quella minima attivazione dall'aver pedalato, salgo sopra la balaustra e caccio subito il catleap verso il lampione (nda. salto con atterraggio in appensione su di una parete), dandomi giusto qualche secondo di preparazione. È un salto che già conosco e che ho rotto in numerose altre variabili, dal freddo al buio, dal bagnato alla stanchezza, privato della forza da 200 squat a singola serie. Ma è un salto che ha lasciato anche delle cicatrici, un tentativo passato con un handplacement sporco (ndt, posizionamento delle mani) e due dita incalcate sulle griglie d'acciaio, doloranti per mesi.
La mia esperienza attuale tuttavia mi permette di saltare in completa sicurezza, nonostante i mesi di latitanza dal luogo. Non lascio che alcuno spettro d'esitazione si affacci ad instillare dubbio. Anche l'assenza di riscaldamento è una scelta voluta seguendo questa direzione.

Il tentativo d'apertura è corretto, morbido, energizzante. Inizio dunque a studiare il salto vero e proprio. Risalgo sulla sbarra, osservo il catleap immaginando l'atterraggio molto più in basso rispetto alla variabile statica in piedi. L'atmosfera cambia, inizia ad infiltrarsi la paura che smuove lo stomaco e dona un senso di agitazione che attiva completamente, come un riscaldamento deciso ed intenso. L'idea è di rendere quel catleap da statico a dinamico, staccandolo da un monkey (nda. volteggio frontale spinto con le mani), cosa che comporterà molto plausibilmente un atterraggio con le mani appese allo stesso livello della balaustra di stacco. L'esitazione già si affaccia, solamente visualizzando il salto da fermo: un atterraggio così basso impone di mettere le mani sulle griglie più grosse dove già ho subito il passato infortunio. Memore di recenti distorsioni alle dita il senso di sopraffazione è alto, non riesco a saltare e smonto, distraendomi con qualche altro movimento.

Ritorno nuovamente alla sbarra, questa volta mi concentro sullo stacco del monkey. L'acciaio con lo stacco piatto, asciutto e freddo restituisce la sensazione di mani che slittano, orribile come può esserlo solo il contatto di suole di gomma nuove sullo stesso materiale, ma bagnato.
Non è però questo il fattore che per anni mi ha frenato dal tentare questo salto. L'atterraggio non è perfettamente frontale, bensì si posiziona per buona metà su lato sinistro rispetto alla balaustra di stacco, rendendo per questo motivo il salto, un salto angolare. Dalle mie previsioni le mani non si poggeranno regolarmente sulla sbarra frontale della balaustra, perché questo comporterebbe la proiezione del corpo non obliquamente, ma dritto avanti. La metà sinistra sul lampione, la metà destra sul vuoto. La soluzione che intravedo quindi è quella di un handplacement misto, una mano dritta sulla sbarra frontale, un'altra obliqua, sulla sbarra a lato che fa angolo nella balaustra. Una soluzione angosciante per un salto che comporta altezza, resa ancor più angosciante dalla necessità di afferrare saldamente l'appoggio con le dita, onde evitare di scivolare coi palmi.

Affiorano i dubbi. Quanto posso variare ed adattare con controllo una tecnica, che viene perlopiù affrontata frontalmente, in una situazione del genere? Ne sono all'altezza? Decido dunque di separare il movimento nelle due fasi distinte: volteggio con poca spinta ed arrivo sopra la balaustra con i piedi a rimpiazzare velocemente le mani – così da permettermi di studiare anche i passi dello stacco, a loro volta obliqui- e catleap, orientato verso le griglie inferiori. Questa volta l'esitazione deve essere al minimo per non esserne sopraffatto, e così sarà. Mi do qualche secondo in più rispetto al salto iniziale, ma una volta sopra la sbarra nel giro di poco tempo sto già saltando verso il lampione. L'atterraggio è solido. Non bello, non accurato, non leggero, ma solido. Senza danni. Una bella progressione, qualche elemento in più in tasca, ma non IL salto.

Ripeto un altra volta, stesso risultato, ma iniziano ad emergere altre problematiche: la rincorsa leggermente obliqua e vicina alla balaustra comporta la collisione di una delle mani con la balaustra stessa durante il caricamento della spinta. Inoltre l'handplacement da già poco scontato lo diventa ancora meno, in quanto una leggera differenza può comportare una decisa deviazione di traiettoria, spingendomi anche troppo obliquamente, al limite dello spazio d'atterraggio. Cosa totalmente possibile nella velocità reale di quando dovrò decidermi a saltare.

Mi concedo un altro tentativo, più rapido, ma che comunque deve essere uno degli ultimi. Non voglio inquinare tutto il processo con ventimila riti, indecisioni, insicurezze. Le progressioni ripetute all'estremo rischiano di diventarlo esse stesse. Ad un certo punto della pratica tutto si riduce a due possibilità: o ce l'hai o non ce l'hai. E io questo salto ce l'ho.
C'è la distanza, c'è la luce - sufficiente, per quanto buio, grazie ad uno dei faretti degli obelischi -, ci sono la forza e la reattività, c'è la tecnica - per quanto questa richieda una notevole capacità di adattamento e controllo dei singoli dettagli - con anni di ripetizioni alle spalle.

Ma c'è anche la paura. E il salto è il punto in cui tutte queste sensazioni contrastanti convergono.

Ne sono attratto perché è medicina. È cura, fiducia, è una risposta da me stesso, per me stesso. Energia nuova che sostituisce quella vecchia, ormai consumata e contaminata da dubbi, indecisioni, amarezze.

Ne sono repulso perché può essere un terribile veleno.
Perché da perdere c'è tutto: la propria salute con ciò che ne consegue, la fiducia nel muoversi, la sicurezza nel poter portare avanti la disciplina che si ama. La scelta si divide così nei due estremi: non farlo, rimanere dove si è con i propri dubbi o saltare, esporsi a tutte le conseguenze, dissipare quei dubbi o confermarli.

Inizio a filmare. Non mi interessa un trofeo, voglio più elementi possibili su questa esperienza. Ritorno per un nuovo tentativo spezzato, questa volta l'ultimo. Poi vado su, il tempo dei preparativi è finito. Guardo il salto, lo ristudio, simulo l'atto dello stacco con le mani. Vado al punto di partenza della rincorsa, inizio a visualizzare l'obbiettivo: devo farne uno solo, nessun dogma dei “3” buoni.

Il respiro è affannoso, tutti gli errori immaginati riemergono. Mancare la sbarra di stacco con una delle due mani, agganciando i piedi alla stessa e proiettando il proprio corpo in maniera incontrollata verso l'arrivo con il volto esposto in avanti. Sbagliare la traiettoria e costringersi ad un salvataggio rovinoso sull'angolo del lampione. Arrivare con troppa spinta a causa dell'adrenalina, piedi troppo alti e mani che non si agganciano, caduta incontrollata con la schiena esposta.

Mi preparo, ma ogni volta che voglio partire allungo un piede indietro di rincorsa, come se il salto, l'avversario, mi spingesse via con la sua forza. Il respiro è affannoso, sento vampate di calore. Parte del mio lavoro è unicamente orientato a rilassare il corpo, mettermi in uno stato di quiete dove le adrenaline non siano così forti da interferire con il gesto tecnico. Ogni volta che voglio partire mi sento paralizzato, è una situazione così opprimente che voglio urlare, disperarmi, piangere perché non riesco.

4 minuti passano, rimango fermo.

Il primo round è andato e l'ha vinto il salto.

Mi concedo un altro tentativo, risalgo, ristudio le mani e ritorno in posizione. Sono più calmo questa volta, meno agitazione, ma lo stato di tensione è ancora altissimo, indietreggio ancora nella rincorsa. Sento la decisione che inizia a salirmi dentro, ma aspetto troppo, arriva un gruppo di anziani a passeggio che mi osservano e la distrazione è fatale. La decisione non rimonta più come prima. Inizio a vagliare un approccio diverso, quello del rimuovere ogni filtro di autoconservazione ed astrarre così tanto la situazione da non renderla più quello che è: spaventosa e reale. Un modo di lavoro che ho già utilizzato in passato, mai su salti così opprimenti. Un modo di lavoro che permette di essere rilassati e coordinati , nel quale ci si abbandona alla piena fiducia nelle proprie capacità. Un modo di lavoro pericoloso che non può essere confermato con questo salto. Un modo di lavoro che non potrà darmi le risposte che cerco, semmai farmi raggiungere un trofeo effimero ed aggiungere un tassello di follia.

In questo groviglio i minuti scorrono, questa volta 11. L'avversario con la sua forza mi ha piegato e questa volta sono sconfitto: so che non salterò.

Ritorno alla videocamera, voglio filmare un ultimo tentativo spezzato per lasciare una buona impronta ad un lavoro che riprenderò non so più quando. Il momento che ritorno alla balaustra però sorge una domanda netta: io questo salto lo posso fare SI o NO. La risposta è immediata: Io questo salto lo posso fare. Lo VOGLIO fare.

Ritorno alla rincorsa, elimino l'idea del salto spezzato. Devo fidarmi di me. Di tutte quelle sicurezze che ho acquisito negli anni e che non sono un optional.
Un paio di minuti e sto muovendo il primo passo, i successivi si susseguono acquisendo velocità come una valanga. La sensazione “fisica” di decisione non è al massimo, ma l'intenzione c'è tutta. Lo stacco con le mani è un istante, il tempo in aria poco di più. L'atterraggio è solido. Non così obliquo come pianificato, ma molto sul lato destro della colonna, tanto che una delle mani non si aggrappa su di una griglia quadrata ma sullo spigolo corrispettivo. Ma è andato. Senza conseguenze.

Tiro un sospiro di sollievo, profondo e rinfrescante. Salto giù ed esulto pieno di energia. Riguardo ciò che ho appena fatto e rido di cuore.