lunedì 19 novembre 2012

Roccia

There was a rock high on the pine trees, above the hammocks. It was standing perfectly still, in balance between a couple of twigs, one side by the trunk, high from the ground. There was not visible sign of any launch, not any branch damaged; investigating about it could have been the result of a perfect throw,  something really unlikely to happens. Of course somebody could have climbed the tree to position the rock in that odd point -I guess with my abilities I might be able to do something like that-, but why a human being would be willing to carry such an uncomfortable object risking his own life on such a difficult climb between frail branches disposed in a way that keeps hard making the way trough? What was the meaning of this? Just creating mindfucks on the people chilling on the hammocks, wondering how something similar may happen? There was a lot to think about, my main though was that I was feeling on the same way that rock was, torn from its natural place to be positioned on a apparently safe spot, in truth, an extremely uncomfortable and precarious position, exposed to the will of the random to stay or fall. An overwhelming sense of discomfort, afraid of whatever may come, bewildered in a foreign environment, longing to fall from the reached point and embrace again my origin, not knowing where was that promised land that gave me birth.

giovedì 13 settembre 2012

7 mesi

Inizio a scrivere questo post a sette mesi ed un giorno dal mio arrivo in Australia a Rotorua, Nuova Zelanda. Cosa ci faccio qui? Cambio di piani improvviso? In verità il motivo è abbastanza banale, la copertura medica gratuita che viene garantita ai cittadini italiani dopo sei mesi scade, lasciando questi di fronte a tre scelte: procurarsi un’assicurazione privata per coprire i mesi rimanenti, uscire dal paese ed attraverso un cavillo burocratico avere accesso ad altri sei mesi di copertura gratuita, fregarsene e sperare che Madre Fortuna ci accompagni sempre o altrimenti rischiare di sobbarcarsi spese sanitarie altissime.

Tralasciando per ovvi motivi l’ultima scelta, le mie attenzioni inizialmente si sono rivolte al trovare un’assicurazione privata, valutando diversi preventivi: la mia prima scelta è stata per il Medibank, l’estensione privata del Medicare pubblico che mi ha coperto per i miei primi 6 mesi di permanenza qua. Un’occhiata in internet mi ha istantaneamente dissuaso dal richiedere assistenza: il preventivo online impostato con la mia nazionalità e il mio visto è stato di ben 2300 $ per sei mesi! Praticamente poco meno di quanto sono riuscito a mettere via in questi 3-4 mesi di lavoro, ovvero i 3000 $ con i quali ero arrivato ad inizio visto e che finalmente mi sono riguadagnato. 

La seconda scelta è caduta su Bupa, altro fornitore di copertura medica che mi incoraggiava con un’ottima cifra di 250 $... troppo allettante per non puzzarmi al naso. Già insospettito dal fatto che mi stimasse un preventivo per singolo stato e non l’intera nazione, ho fatto una piccola ricerca in internet che ha rivelato recensioni di questa compagnia abbastanza furiose, con persone che si sono dovute sobbarcare le spese mediche per intero e hanno visto i soldi solo mesi e mesi dopo, altre che rivolgendosi ad ospedali si sono visti rifiutare l’accettazione in quanto le suddette strutture non erano incluse nella polizza stipulata, altre ancora che hanno avuto frustranti problemi nel cercare di contattare la compagnia stessa… Dal mio punto di vista qualcosa giusto un gradino al di sopra della mera truffa, pertanto nonostante il prezzo favorevole ho preferito scartare in vista di eventuali rogne nel ottenere il servizio per il quale avrei pagato e per il quale questa compagnia sembra riluttante a voler offrire. 

Scartate tutte le società con un feedback simile a questa, la scelta rimaneva su un’assicurazione da viaggiatore italiana che per 5-600 € mi avrebbe fornito un servizio complessivamente completo, anche se spiegato in maniera poco specifica e fastidiosamente infantile sul loro sito web, fattore che mi ha lasciato perlopiù dubbioso sulla loro serietà e che unito a tutti i cavilli dichiarati del tipo “non ti copriamo se te la vai a cercare” mi ha convinto a guardare piuttosto per il prezzo di un biglietto aereo internazionale e guarda caso Melbourne-Auckland e ritorno in 5 giorni risultava di 280 $ -230 all’inizio, ma le esitazioni come sempre fanno gonfiare i prezzi-; tempo di organizzare una breve visita in qualche località nei dintorni di Auckland ed eccomi a Rotorua, cittadina su un lago nel nord della Nuova Zelanda, famosa per la sua attività geotermica, le numerosi fonti termali ed ovviamente i centri di benessere. Di certo non il posto migliore che esista in questa nazione, in parte anche a causa del tempo sempre piovoso nel pomeriggio, ma per gli stessi soldi dell’assicurazione da viaggiatore mi sono preso l’occasione di avere un piccolo assaggio di questo paese, concedermi bagni di fango e termali, qualche ora di escursione e passeggiate a scoprire le meraviglie dell’attività vulcanica celata sotto il suolo e le acque locali, ma soprattutto a rilassarmi, staccare la mente dai problemi, dal dover calcolare sempre ogni minima spesa e al concedermi qualche sfizio in più grazie al vantaggioso cambio di dollari.

Le premesse alla partenza di questo viaggio erano iniziate con un mal di testa colossale, dovuti in parte all’aver fatto due giorni di seguito di bagordi con zero cena e molto alcool, prima coi colleghi di lavoro poi con gli amici a Melbourne, ma soprattutto all’essermi ritrovato nuovamente incastrato in situazioni precarie ed economicamente svantaggiose. Difatti tutta la questione Nuova Zelanda/assicurazione medica è stata anche una gigantesca palla al balzo per mollare il mio lavoro da sguattero e prepararsi a ritentare la strada della farm per ottenere il secondo visto e guadagnare finalmente qualche soldo in più. La meta la tanto decantata Griffith, cittadina del New South Wales celebre per la presenza di italiani, vinicoltori e in parte (si dice) anche mafiosi, ma ancor di più per l’essere una delle zone più fertili e produttive del sud est australiano. A gestire la manodopera per le aziende stesse, in città sono presenti tre working hostel, ossia ostelli che oltre al fornirvi di un posto in cui dormire vi troveranno anche un lavoro e il trasporto per raggiungerlo quotidianamente. 

Dalle recensioni altrui questo può lasciare aperto a molti scenari di sfruttamento, con i proprietari che gestiscono le vostre buste paga prendendosi la loro percentuale e che non vi forniscono alcun contratto con i rischi -improbabili ma possibili- di vedersi agenti del fisco chiedervi gli estratti conto per sapere come avete fatto a sopravvivere mesi in Australia senza “aver lavorato”, ancor di più del vedersi rifiutare il secondo visto non potendo fornire alcun documento cartaceo aggiuntivo (buste paghe, dichiarazione dei redditi) che certifichi il vostro lavoro in farm, ma soprattutto il rischiare di trovarsi a lavorare nuovamente al di sotto del minimo sindacale, evidente svantaggio dato che essendo in regola lo stipendio è più alto e che buona parte delle tasse versate si possono richiedere indietro all’uscita del paese.
Ovviamente questi sono episodi al limite, considerato che chiunque sia stato in quella zona me ne ha parlato sempre come una nella quale si possono fare buoni soldi e avendo puntato all’ostello a detta di tutti migliore, dove ho amici francesi come appoggio, considero ancora buona la possibilità di prendere qualche soldo e poi poter organizzare al meglio i mie futuri mesi di puro viaggio.

Dove inizia il mal di testa allora?  

Il mal di testa inizia a manifestare i primi sintomi poco meno di una settimana fa e un paio di settimane dopo aver annunciato la mia imminente intenzione di voler mollare il lavoro ed andarmene da Melbourne, l’aver preso contatti con il working hostel  -il cui proprietario cileno mi avrebbe garantito un lavoro entro 2-3 giorni dal mio arrivo-, l’aver bloccato il volo per Auckland. Dopo un periodo decisamente stressante tutte le cose da farsi si sono concentrate negli ultimi giorni, come al mio solito, acuendo i sintomi dell’emicrania già presente a causa dei disordini alcool-alimentari e al poco dormire, definitivamente scoppiata due giorni prima di partire quando, chiamando il proprietario dell’ostello per confermare la mia prenotazione, mi sono sentito dire in seguito a mia ulteriore richiesta di conferma, che i 2-3 giorni per avere un lavoro in verità erano 2-3 settimane.­­  La reazione successiva alla telefonata  ovviamente è stata di rabbia, seguita ad esasperazione e ad una disperata ricerca in extremis per  eventuali altre alternative al dover stare fermo in una cittadina spersa in mezzo al nulla con nulla da fare, nessuna connessione internet nell’ostello, spendendo i soldi riguadagnati con tanta, tanta fatica e peggio di tutto settimane preziose del mio visto altrimenti utili per viaggiare o guadagnare soldi.

Inghiottito il boccone amaro ho deciso di rimandare eventuali decisioni al mio ritorno in Melbourne, se possibile cercare qualche altra opportunità nel caso mi fossi trovato una connessione internet negli ostelli in cui avrei soggiornato in Nuova Zelanda, ma spegnere la testa per 5 giorni sarebbe stata la priorità.



Sette mesi passati lontano da casa, sebbene questi siano passati veloci, guardandomi indietro sembra passata un’eternità da quando mettevo piede nell’assolata Sydney. I mesi passati a Melbourne sembrano una catena di disgrazie che ho accumulato per aggiungere peso al peso, per intensificare le mie ansie ­e indebolire ulteriormente il mio orgoglio. Guardo al mio trascorso lavorativo non privo di problemi e sfruttamenti, alle mie difficoltà con l’inglese, alla mia schiena dolorante, al lettore mp3 felicemente ritrovato salvo vederlo collassare qualche settimana dopo, ai soldi spesi per lo schermo del mio computer sfasciato per subdola sbadataggine, a ciò che ho perso di tecnica nello sport che amo fino all’interruzione dello stesso, allo stress di cui mi sono fatto carico in un ostello tra i peggiori di Melbourne, tra perenni malfunzionamenti, minacce verbali da irlandesi e poche amicizie buone. 

C’è stato quel momento circa un mese fa in cui il mio amico inglese Matthew aveva abbandonato l’ostello per andare a Sydney in vacanza e poi trasferirsi su un altro alloggio a causa dei problemi di cuore con la mia amica cilena Teresa, il cui fidanzato olandese incontrato in  Asia sarebbe arrivato a poco in zona per portarla a fare due settimane di viaggio nei dintorni durante la sua breve permanenza in Australia. Avendo zero opportunità di svago a causa di orari di lavoro pressanti che non coincidevano con quelli degli altri miei pochi amici sparsi in giro per Melbourne, mi sono trovato una settimana praticamente da solo nella camera da sei usualmente piena nella quale ho vissuto per quattro mesi. Fuori l’inverno che ancora batteva con le sue piogge e temperatura fredde dopo aver dato l’impressione di essersi rasserenato per qualche giorno, dentro i soliti malfunzionamenti, pochi ospiti e per tre giorni unico interlocutore un signore del New South Wales, visibilmente malato di cancro, in visita al centro medico dedicato a Melbourne per poi essere rispedito nuovamente a Camberra, un 600 km a nord est, per ulteriori cure. 

La situazione ha ovviamente peggiorato il mio morale, lo stato di questa persona era pietoso ed altamente evidente nell’aspetto fisico, questi reagiva cercando di assorbire il più possibile da ciò che aveva intorno, le comunicazioni tra le persone, i dialoghi; lucido e cosciente della sua situazione ma non da meno determinato a proseguire le cure, bisognoso di parlare e di cogliere tutti i frammenti di vitalità e quotidianità attorno come se potessero servirgli a restituire la vita che stava perdendo. Non mi sono sottratto alle conversazioni con questa persona, vi ho discusso allo stesso modo con cui avrei fatto con qualsiasi altra, senza imbarazzanti attenzioni per acuire il senso di distacco, di precarietà tra due piani che sono quello della vita e della morte nella quale si trovano i malati terminali.

L’episodio mi ha aperto a numerose considerazioni sulla caducità della vita, mi sono posto interrogativi su come dovrei vivere la mia vita, sia dal punto di vista salutare che da quello di ottenere ciò che voglio, ma in verità con la situazione generale mi sono sentito sprofondare nella malinconia per giorni… Giorni difficili, stanchezza, problemi, insoddisfazioni, ma ora che sono giunto alla fine della mia esperienza qua a Melbourne vedo tutto ciò di bello che è riuscito ad emergere, i rapporti che mi sono costruito con le persone, amicizie sincere, brevi momenti di divertimento, cercare di dare il meglio di se stessi per quanto questo sia possibile. Nel mio piccolo mi sento cambiato, sono sempre andato avanti, lasciandomi indietro le esitazioni e guardando in faccia agli obiettivi, confusi ma pur sempre traguardi da raggiungere, e vedo anche la bellezza dell’aver lavorato qua, tra colleghi coetanei da tutto il mondo, con occasionale divertimento normalmente impensabile in Italia.

Guardandosi indietro credo che ci si veda sempre bambini, ma il passaggio all’età adulta che sta rappresentando questa esperienza è qualcosa che si contrappone fortemente alla mia apatica e in parte infantile vita da disoccupato che conducevo a casa negli ultimi mesi, qua sono cresciuto tra difficoltà, dover contare su me stesso o sulle poche persone affezionativisi, organizzarmi su tutto, sulle decisioni da prendere, burocrazia da svolgere, dove dormire e cosa mangiare. 
In qualche modo l’Australia sta rappresentando un punto d’arrivo per me, e mi sento soddisfatto anche dal mio livello d’inglese, non sempre eccezionale ogni giorno ma che mi permette ormai di comunicare, capire e discutere di un po’ di tutto con la maggior parte dei miei interlocutori.

Stavo parlando dell’emicrania, di quando è iniziata ma non di quando si è conclusa, ovvero all’ostello dove ho alloggiato a Rotorua, la sera dopo una rilassante seduta termale, con un messaggio dal mio amico Baptiste che mi avvisa che molte persone avrebbero lasciato il working hostel a breve, avendo terminato i loro 3 mesi di lavoro per il secondo visto, e che questo sarebbe stato il momento più favorevole per trovare qualche lavoro in attesa del vero inizio della stagione di raccolto estiva. Non so se questo corrisponderà alla verità, ma, anche grazie ai 5 giorni in Nuova Zelanda -della quale mi sono innamorato e nella quale probabilmente tornerò-, mi sento sereno, positivo ed infine anche un po’ dispiaciuto a lasciarmi alle spalle questa città, nella quale ho vissuto momenti determinanti e stretto legami profondi.


venerdì 15 giugno 2012

Pesci rossi apatici

Mi trovo in una casa, un ambiente mai visto ma che percepisco come di mia proprietà. Luci soffuse, buio all'esterno, sensazioni di essere isolato da altre abitazioni, forse in collina, la pioggia batte all'esterno. Siedo con malinconia su un sofà, credo rosso, una sensazione di solitudine opprimente, un lutto per una moglie che non c'è più. Guardo un acquario, forse vuoto o forse con degli apatici pesci rossi all'interno, o desidero che ci siano, mi rendo conto che vorrei qualche animale a farmi compagnia più interessante di alcuni apatici pesci rossi. Mi alzo per recarmi in quella che credo sia la stanza riservata ad un mio parente, uno degli oggetti sopra un comò attira la mia attenzione: è una specie di immagine sacra, forse una madonna, forse in vetroresina, con una specie di illuminazione al neon come cornice o qualcosa di simile, che mi causa repulsione estetica. Il sogno finisce o forse chiudo la porta. 

Sono al casinò di Melbourne, sto fissando degli orrendi pesci rossi, grandi e stipati a decine dentro un acquario, un sorriso perenne ed inquietante sui loro volti mi sfida. In questi giorni ho imparato a perdere ancora un po', l'occasione del lavoro nella fattoria di farm è sfumata, oggi mi ha persino chiamato il mio amico da Belfast dicendomi che è stato licenziato e in una settimana si è sputtanato quasi duemila dollari -non chiedetemi come, mi ha risposto che non lo sa- ed è rimasto al verde. Qualche giorno fa se n'è andato anche il mio lettore Mp3, probabilmente l'ho appoggiato su una delle scrivanie qua fuori dalla mia stanza mentre chiamavo a casa o mi è caduto e qualcuno ne ha approfittato... questo è stato il colpo più duro, ma cerco di vederla come fattore positivo dell'avere meno strumenti che mi isolino dalla comunicazione quando sono in giro, magari avendo sempre associato una canzone ad una sigaretta ora mi sarà più facile smettere seriamente di fumare. Poi ho perso anche i capelli, una rasoio se li è presi e se li è portati via. Forse un banale gesto rituale, un simbolico tenere i "pensieri in ordine" o desiderare un cambiamento, di più la praticità di non avere sempre tanfo in testa lavorando in una cucina, essere meno stressato dal sentirmi trasandato, tanto voler assomigliare a me stesso. Si perché è qualcosa di cui mi rendo sempre più conto, il voler assomigliare a qualcun altro e non a me stesso, il cercare di vivere vite altrui, il rifarsi crescere i capelli per avere un immagine di me che non avrò mai e che sarà una pallida imitazione dei miei "modelli di successo". Ma il gatto non sarà mai felice se farà la vita del cane, o no? 

Mi sto allenando in compagnia, una mattinata dalla luce intensa e fredda, colori allo stesso tempo lividi e luminosi e abbaglianti come solo la luce del sole australiano rende veramente. Eseguo un po' di salti di precisione consecutivi su un marciapiede lastricato, seguendone il senso accanto ad un edificio che potrebbe essere la International Gallery of Victoria. Sono leggerissimo, come se avessi meno gravità, 5 metri orizzontali di salti con atterraggio leggero e controllato, subito pronto a scattare con potenza per i successivi. Più avanti c'è un dislivello, una balaustra-muretto che porta ad un livello inferiore dell'edificio dove ci sta un'impalcatura. Ora sono là sotto che faccio qualche volteggio, dalla balaustra in alto vedo piombarmi addosso un altro praticante che sta eseguendo un'acrobazia complicata e mai vista, dalla quale capisco di non essere l'unico a beneficiare della minore gravità. Lui mi vede e riesce a deviare in aria schiantandosi su un supporto dell'impalcatura a terra; sento un leggero senso di colpa, responsabile per ciò che è successo, ma subito dopo cosciente di essere stato al mio posto e che non spettava a me il controllare cosa c'era sotto. Gli domando come sta, lui si sta rialzando e risponde che sta bene, non si è fatto niente. Tutto si è svolto con la leggerezza e serenità con cui è iniziato.

Un amico che bazzica psicologia e ne sa qualcosa di interpretazione dei sogni mi dice che l'Australia mi sta facendo bene sostanzialmente, anche se è una grande prova di resistenza; imparo ad essere leggero ma mi mancano affetti autentici in mezzo a tanti superficiali, che vanno e vengono, a pesci rossi apatici. Sto imparando a rinunciare sempre a più cose per stare qua, già lo facevo all'inizio ma ora è vitale per la mia sopravvivenza, anche se in qualche strano modo riesco a farlo con serenità; percepisco parte di tutto ciò come ascetico, anche la perdita del lettore mp3 stesso, la mia necessità di ascoltare sempre musica, necessità isolante anche in molti casi... ora vivo così, ho la mia vita semplice e la mia piccola cerchia di persone, nella mia Melbourne sempre più spenta e disabitata. Anche alcuni del gruppo degli irlandesi se ne sono andati, o meglio un paio sono stati cacciati fuori, una delle ragazze -per l'aver scatenato una rissa da ubriaca con altre ragazze- e il capetto del gruppo -quello più fastidioso-, al quale hanno smesso di perdonargli comportamenti sempre al limite quali il lanciare sgabelli sui tetti degli edifici vicini sul retro per sfogare la propria rabbia alcolemica. Così alcuni gli hanno seguiti su un nuovo ostello o altri se ne sono semplicemente andati per la loro strada, mentre per me la vita procede così, una ventina di ore su un ristorante che mi permettono a malapena di salvare una ventina di dollari a settimana ma che perlomeno mi garantiscono dei pasti a gratis, qualche chiacchiera coi colleghi, qualche momento di svago con la ragazza cilena e l'amico tedesco, o il pizzaiolo vicentino conosciuto qua in ostello che ora sta in appartamento, un paio di allenamenti a settimana. 

Mi ritrovo spesso a pensare ai miei 4 mesi, ai miei obiettivi e mi rendo conto della futilità di parte di ciò a cui ambisco, a quanto per me il cercare di fare quello che mi sono imposto sia vitale e se le cose non vanno come nei piani entro in crisi; una vita programmata che mi rende statico, che non mi fa apprezzare la spontaneità delle situazioni vissute e le porta in secondo piano rispetto alla delusione degli ideali che non si realizzano. Certo di lavoro ne ho ancora da fare, soprattutto nello stare con le persone, ma in fin dei conti non penso più che 4 mesi siano stati sprecati, non del tutto almeno. E mi rendo conto che tutti i posti che voglio visitare in verità non li voglio vedere solo per farci qualche foto e dire di esserci stato, ma li voglio visitare con altre persone, divertirmi, fare cazzate e cose uniche che possa portarmi sul cuore per il resto della vita. Ed è questo, il confronto con le vite altrui, le esperienze che leggo, che mi ha reso veramente insoddisfatto fino ad ora.

Ho avuto compagni di viaggio più o meno temporanei coi quali mi sono divertito, ho parlato e scherzato, ma quello che mi manca ora è qualcuno che sia come me, poche idee chiare ma voglia di esplorare, di mettersi all'avventura con testa ma pur sempre con voglia di divertirsi... credevo potesse essere il tedesco, ma lui ora ha il suo lavoro ben pagato, i suoi soldi da spendere, i suoi obiettivi che coincidono sempre meno coi miei, come lui idem la sua amica cilena mia room-mate. Sono più vecchi, con la loro visione del mondo più o meno consolidata, le idee più o meno chiare; la loro prerogativa è guadagnare soldi qua e rimettersi in viaggio per altri anni ancora. Ogni tanto sarei tentato di seguire i loro passi, starmene lontano da casa per anni, andare ovunque, come fanno molti altri che ho incontrato qua, come ha fatto uno dei chef dove lavoro, quello olandese che è partito nel 2006 in viaggio per il mondo e 6 anni dopo è a Melbourne a fare il cuoco, o quello delle Mauritius che ora qua ha moglie e figli 7 anni dopo aver dato l'addio alla sua isola natale senza averci rimesso più piede.

Onestamente non so se riuscirei a fare mai una scelta del genere, questo quasi comporta il troncare con una vita, con amicizie ed affetti vari, e richiede un grande ego per ovviare alla solitudine del viaggiatore. Il mio povero amico tedesco avrebbe voluto ovviare a ciò con la sua amica cilena, ma come me è troppo lento, troppe seghe mentali e poco impulsivo... mi sono stupito con la facilità con cui lei si è buttata tra le braccia dell'inglese in camera nostra, un altro viaggiatore di professione, un tizio simpatico che lavora e nel tempo libero fuma tonnellate di erba. Questo credo mi abbia aperto qualcosa dentro, vedere come persone decise facilmente cadano tra le braccia l'un l'altra per chiudere quella falla nel cuore che comporta una scelta così grande del stare lontani da casa anni, sapendo di poter fare affidamento solo su se stessi. Forse è stato ciò a smuovermi il primo sogno, la coscienza di sentirmi solo in questo momento, di voler qualcuno con il quale condividere obiettivi, desideri, divertimenti o semplicemente qualche ora di amore, per stare bene, annegare gli insuccessi, sentirsi vittoriosi. Il capo cuoco australiano di origine maltese mi ha domandato "cosa voglio fare da grande"; "I don't know" gli ho risposto, ora come ora sarebbe "voglio essere felice". Sarò capace di esserlo ora? 

Non so se riuscirò a mantenere questo lavoro, la velocità che mi è richiesta è alta a paragone con la mia esperienza, gli accenti e le parole sconosciute non aiutano ad agire con rapidità e degli ultimatum mi sono già stati imposti, ma cerco di prendere questo momento per quello che è e di apprezzarlo, non come un inesorabile scandire delle ore. Mille tentativi falliti che dicono che l'uomo non è fatto per volare, ma io mi preparo nel frattempo sempre ad ali spiegate.

mercoledì 6 giugno 2012

Un buco nell'acqua


È passato lungo tempo dall’ultima volta che ho scritto in questo blog, di cose ne sono successe, nuove evoluzioni, nuove considerazioni, una domanda più opprimente delle altre: e se l’Australia fosse un proverbiale buco nell’acqua

Uscito dalla farm “convinto del mio valore” mi sono scontrato nuovamente con la realtà, passando tre settimane chiuso in un ostello, nel mentre combattendo contro il mal di schiena e cercando invano un lavoro, per mettermi poi di nuovo in viaggio diretto verso Melbourne. Qua mi aspettava l’amico tedesco della farm e tante aspettative gonfiate dalle varie opinioni incontrate sul cammino a riguardo del lavoro, in seguito più o meno tradite. Il mio impatto con la città è stato sgradevole; il ritrovarsi in una metropoli gigantesca, alloggiando in un ostello collegato ad un irish pub lontano 5 km dal centro, il più economico ed ovviamente sporco e malfunzionante, è stato sgradevole. Senza tanti giri di parole Melbourne dal principio la ho odiata, una megalitica distesa di cemento -per quanto verde possa esserci all’interno a paragone con le nostre grandi città- contornata di suburbs, distanze enormi, servizi pubblici costosi, episodi di gente maleducata, priva del fascino di Sydney sebbene dotata di architetture interessanti. Rimpiangevo la tranquillità di Hobart, la mia camera singola con tutte le suppellettili incluse pagata solamente con l’onere dell’essere responsabile notturno, il cullarmi in uno stile di vita poco lontano da quello di casa, il disegnare e il chiacchierare con i gestori portoghesi immigrati di lunga data, le frequentazioni con le poche amicizie fisse che ero riuscito a farmi all’interno di quella piccola realtà. Ma in fin dei conti ero convinto di mentire a me stesso, pochi soldi per esplorare i dintorni, scarsissima offerta di lavoro, poca gente con la quale pianificare un eventuale viaggio e gli amici locali che a breve sarebbero partiti verso altri lidi o diretti a casa. Melbourne invece sembrava un sogno, con le sue 11.000 offerte di lavoro su GumTree (sito specializzato su annunci d’ogni genere) a dispetto delle scarse 500 di Hobart, da cui imperativo il bisogno di muoversi al più presto, rinunciando temporaneamente al progetto di visitare la Tasmania della quale in fin dei conti ho visto solo la capitale e la strada tra quella e la farm. Nonostante l’iniziale disprezzo per la città mutato positivamente poi nello scoprirla, socialmente non ho avuto troppi problemi ad ambientarmi con la nuova realtà, nuove amicizie, qualche divertimento, qualche italiano (veneto per di più) col quale poter parlare liberamente dopo 3 mesi, il tutto sempre più diradato con l’approssimarsi dell’inverno, le piogge frequenti, il vento gelido, le giornate sempre più corte e buie. Un pezzo di carne progressivamente spolpato che lascia all’osso viaggiatori in breve passaggio e una comunità irlandese di lavoratori con la quale ho pochi approcci, rare simpatie e molte più antipatie, forse anche reciproche.

Il fattore più tragico rimane sempre quello legato al mondo del lavoro. Dopo una settimana di sbattere la testa qua e là inviando inutilmente curriculum per mail o portandone a mano, mi sono ritrovato con l’amico tedesco a fare un brain-storming, nel quale ho iniziato a notare i difetti del mio approccio a partire dal curriculum stesso: un inutile e lungo minestrone di esperienze lavorative, banale e poco credibile. Ho iniziato così a sfoltire il tutto, separare i curriculum -uno per lavorare nell’edilizia, un altro per lavorare nella ristorazione- renderli credibili, essenziali e adatti a più situazioni, e a combattere il mio vero demone: il telefono. Già questo mi è fonte di disagio e incomprensioni in Italia, figurarsi in un paese straniero dove ci si trova a dover fronteggiare accenti più o meno incomprensibili, inevitabile comunque utilizzarlo se si vuole avere qualche possibilità in più di trovare lavoro. Un principio di letterali figure di merda, ma che perlomeno in alcuni casi fortuiti di interlocutori comprensibili mi ha permesso di avere accesso a qualche colloquio, anche se infine il primo lavoro è stato paradossalmente grazie ad una richiesta via internet ed è stato gestito per mail senza l’apporto di alcun curriculum. Prima esperienza, sandwich-hand/salad maker e aiuto cuoco in un cafè del centro gestito da uno sgradevole svizzero, iniziata con uno stipendio da fame (13 dollari l’ora, meno del minimo sindacale, nessun pasto incluso, solo sconto del 40% sui prodotti) e un 30 ore di lavoro settimanali, ma con la promessa di un contratto regolare e 16 dollari l’ora dopo il periodo di prova e successivamente più soldi ancora. Ritmi di vita intensi, quasi new-yorkesi, sveglia alle 5 e mezza con gente ubriaca in giro per l’ostello fino a notte fonda e il rumoroso pub sottostante, 40 minuti tra metro e camminata, inizio alle 7 con ancora il buio, lavoro fino alle 12 e 30, mezz’ora per il pranzo portato da casa e altre 2-3 ore di lavoro, poi allenamento coi ragazzi del posto oppure fiondarsi in ostello a dormire per un paio d’ore, cenare e prepararsi il pranzo per il giorno dopo. Una settimana e mezza così, in un ambiente non prettamente congeniale ma gradevole, orgoglioso di guadagnarsi i propri soldi e dell’imparare nuove cose, soddisfatto nel riconoscersi gradualmente sempre più veloce e professionale. Ma a quanto pare non tutti erano della stessa idea: la domenica della seconda settimana, una brutta giornata umida e piovosa, l’hangover della sera precedente che ancora premeva sulle tempie, disagio fisico, un messaggio sul cellulare -poco prima di incontrarsi davanti ad un museo con l’amico tedesco- che mi avvisa “hai fatto un buon lavoro ma cerchiamo qualcuno con più esperienza” e mi invita a passare a prendere gli ultimi soldi il mercoledì e a restituire la t-shirt del cafè. Mi si è riaperto ancora un abisso, ancora una volta con pochi spiccioli contati in tasca insufficienti per muoversi altrove, l’amarezza dell’aver rifiutato altri lavori nel frattempo per cercare di essere corretti e avere una parvenza di stabilità, il trovarsi ancora a dover ritardare progetti con un scandire inesorabile del tempo come il timer di una bomba.

Conta quanta gente punta tutto in questa storia 
conta quanta gente è spinta fuori traiettoria 
conta quanta gente che ora conta su un miraggio 
finora quanta gente ancora spera in questo viaggio

Quasi 4 mesi passati qua, sempre sul filo del rasoio e nell’indecisione: voglio lavorare o viaggiare? Decisioni importanti che bisogna prendere sul serio e ragionare attentamente prima di partire. Sono venuto qua con un progetto chiaro di cosa fare, che a breve ho sconvolto completamente, spaventato ho agito guidato più dall’istinto che dalla razionalità. Non posso sapere come sarebbe andata se avessi rispettato i progetti originali, o se avessi approfittato delle opportunità che mi offriva Sydney, al costo di mentire e dichiarare una permanenza nella città per 6 mesi sebbene non realmente intenzionato. In un infinità di varianti che è la vita -sulle quali commiserarsi dell’aver praticamente buttato 4 mesi senza avere concluso alcun obiettivo impostomi, delle costanti occasioni con le ragazze sprecate in un turbinio di mind-fuck, del non sapere entrare nell’ottica australiana del don’t worry-, semplicemente accetto come realtà unica quella che è già accaduta ed è immutabile. Gettare la spugna è stata la mia tentazione dopo l’aver perso il lavoro, ma che guadagno ne avrei avuto a tornare a casa da sconfitto, senza più un soldo, senza alcun progresso mentale consolidato ed un inglese che ancora fa fatica ad entrarmi in testa?

Si, l’inglese è una parentesi della quale voglio discutere. Intanto voglio specificare alcune varianti principali: non è necessario sempre saperlo parlare correttamente per avere un qualche risultato, ma è vitale se non siete il tipo di persona giusta. Mi spiego meglio, ho conosciuto alcuni italiani dal principio fino a qua e i casi che mi sono ritrovato sono dei più vari, da persone che sono venute qua con un inglese quasi inesistente ma che grazie all'esperienza, all'intraprendenza e in alcuni casi a qualche altro fattore che ha a che fare con la prevedibilità umana -non voglio girarci intorno, mi riferisco al fatto che se sei una ragazza e sei carina sei sempre più disposta ad essere aiutata- sono riuscite in alcuni loro obiettivi di permanenza, altre ancora che nella medesima situazione sono state costrette a chiudersi in farm per 7 mesi fino a spaccarsi letteralmente la schiena ma venendone fuori con un inglese comprensibile, poi quelle che sanno vendere la propria italianità esuberante e il loro accento stereotipato -che io non posseggo minimamente- e quelle altre che vengono qua con le idee chiare, le giuste esperienze in tasca ed un inglese fluente che dopo un paio di giorni già lavorano ad ottime condizioni. Poi ci sono io, un inglese scritto e letto ottimamente, parlato comprensibile e con ottima pronuncia, ma una capacità di ascolto pessima e una timidezza castrante. In 4 mesi alcuni progressi ci sono stati di sicuro e non piccoli, ma spesso e volentieri alla vergogna di chiedere di ripetere per più di due volte ho sopperito con un semplice “yeah” di circostanza, fatto che spesso crea situazioni imbarazzanti, scarsa comunicabilità e fa crollare castelli di carte

Ci sono questi fattori e tanti altri quali il parlare con accento e una correttezza sulle frasi ultra ripetute che lascia intendere all’interlocutore una buona conoscenza dell’inglese che poi si rivela non tale quando questi inizierà a parlare in maniera fitta e ostica o il constatare che alcuni filmati in accento australiano continuano a rimanere incomprensibili negli stessi punti anche dopo mesi di pratica, ad aumentare il disagio nei confronti della comunicazione. In definitiva se non siete come gli esempi vincenti sopraccitati, non veniteci qua senza un inglese molto preparato, spesso e volentieri l’alternativa è chiudersi in se stessi per incapacità comunicazionale o stringersi in comunità di persone della stessa lingua o livello linguistico, che ruotano attorno a chi parla meglio di loro l’inglese, senza praticarlo seriamente, destinati al lavoro in farm o allo sfruttamento ad opera di connazionali immigrati. Si, ci sono i fattori accento, gli slang differenti… come mi è stato rivelato da un irlandese che ha lavorato per un breve periodo in una farm anche loro hanno difficoltà in alcuni casi a comprendersi a vicenda sebbene entrambi di radice anglo-sassone, ma l’australiano o il neozelandese è solamente un accento, non una lingua diversa, in cui “r” e “o” vengono arrotondate e le altre lettere masticate fino a rendere parole semplici quasi sconosciute. Forse lo scozzese può essere una lingua diversa, cambiano così tanto le vocali e la cadenza della pronuncia da stravolgere il tutto, ma in fin dei conti la verità è che spesso e volentieri il problema è nostro di noi che non sappiamo l’inglese più che dell’interlocutore che non sa farsi capire.

Altra parentesi è venire qua con le idee chiare su cosa fare, su come muoversi e non trovarsi con l’acqua alla gola; avere un’esperienza seria ed utile può essere determinante per entrare nel mondo del lavoro. Gongolarsi nelle indecisioni è una perdita di tempo, a lungo sono stato indeciso se investire soldi e fare il corso per la white card e lavorare nell’edilizia -unica vera esperienza utile e redditizia che possiedo-, ma la paura di buttare via 200 $ senza magari avere alcuna prospettiva sicura di lavoro considerata la concorrenza irlandese proprio non mi allettava, meno dell’idea di lavorare ancora all’aperto durante l’inverno. Tanta è stata l’indecisione che ormai i soldi sono troppo risicati per poter fare alcuna mossa del genere e alla fine in mancanza di un’alternativa valida il fiondarsi su lavori nella ristorazione rimane la scelta più ovvia, consci che qualcuno con esperienza reale sarà sempre uno scalino sopra di noi. Uno che avrà avuto un passato da pizzaiolo, da chef o da pasticciere, riuscirà in breve tempo a conquistarsi un lavoro sicuro a condizioni ottimali, tutti gli altri saranno persi nella selva del kitchen-hand -aiuto cuoco- che spesso e volentieri si rivelerà essere un lavapiatti malpagato e in alcuni casi anche in nero, con tonnellate di concorrenza. Questa è la strada che mi sono scelto per ora, spero sempre che la posizione in cucina mi dia accesso a cariche più alte, già il lavorare come sandwich-hand mi regalava più orgoglio e possibilità future e l’evitare di lavare piatti, pertanto anche se la strada è ostica sono disposto a seguirla.
Tutto ciò si scontra purtroppo anche coi progetti a medio/lungo termine che si hanno. L’indecisione mi ha fatto sprecare quasi 4 mesi del mio visto, so che se voglio prendere il secondo da un anno come risorsa per il futuro devo procacciarmi 3 mesi (due mesi e mezzo forse, considerando i giorni della prima farm) di lavoro nelle realtà rurali, siano queste farm o edilizia. Poi due mesi sicuri li voglio dedicare puramente al viaggiare e ai tempi morti in attesa di un lavoro, siano essi frammentati in vari scaglioni o continuativi. Progetti che col senno attuale sembrano di difficile attuazione, non sapendo se riuscirò a consolidare un lavoro in tempo breve, tuttavia nuovi fattori sono entrati gioco a darmi più chance: fame, mentire ed esperienza.

Cosa sono questi? Beh semplicemente la fame è la paura concreta di rimanere senza soldi per strada e senza cibo, il guardarsi attorno e sapere di dover fare sempre sacrifici di ogni sorta per mancanza di un reddito… uno dei migliori incentivi che spinge ad attivarsi a 360° per ottenere ciò che si vuole, la paura che attiva meccanismi di sopravvivenza e toglie parte delle seghe mentali sul chiamare numeri di telefono, starsene ore sui siti di annunci a cercare di beccare quello al momento giusto e chiamare, attivarsi per girare un po’ ovunque con curriculum alla mano. Non voglio dire che sono arrivato veramente alla fame e che mi sono attivato come un ossesso, ma che effettivamente lo spettro di un fallimento e ancor peggio della perdita di ciò che è basilare per la autoconservazione mi ha spinto ad impegnarmi molto più seriamente nel cercare un lavoro, tantovero che mi sono ritrovato addirittura a fare un’ora e mezzo di treno per presentarmi ad un colloquio in uno dei tanti suburbs che circondano questa città.

Il fattore mentire è quello più amaro, quello che si basa su tante questioni più o meno implicitamente morali ma soprattutto di auto-stima. Sono una persona che trova fastidioso mentire, lo so fare e anche bene, ma cerco sia di vivere nella coerenza e sincerità per evitare sgradevoli rimasugli, sia l’evitare di dichiarare qualcosa che effettivamente non so fare perché timoroso del dimostrarsi non all’altezza della situazione. Già compilare il curriculum è stata un’opera di menzogna dal principio, d’altronde se vuoi avere qualche possibilità in un settore in cui non hai esperienza reale -solo domestica nel mio caso- ma nel quale pensi di poterti destreggiare, il passaggio è obbligatorio… Così dalle timide bugie dei primi curriculum l’esperienza ha iniziato a gonfiarsi in progress, constatando che la poca dichiarata non mi era di molto aiuto nel dare un’immagine quanto meno confortante delle mie capacità. Tuttavia il fattore è relativamente d’aiuto, spesso e volentieri i datori neanche li guarderanno essendo ormai disillusi dalle bugie dei backpackers, valuteranno direttamente le capacità con una prova e in fin dei conti le uniche menzogne più o meno valide saranno quelle relative al tempo di permanenza dichiarato che tanto mi condizionava all'inizio, sempre 6 mesi anche se si ha intenzione di starne la metà.
E qui entra in gioco l’esperienza, quella che pian piano si è insinuata con le prime fallimentari prove di lavoro, con lo studio a casa, e migliorata dall’esigenza di dimostrarsi abile. Il mix finale di questi elementi garantisce lo spingersi oltre ai propri limiti, siano questi morali che mentali, guardare un po’ più in faccia a ciò che si vuole ottenere e incamminarcisi verso con passo un po’ più sicuro. Come risultato mentre scrivo questo sono reduce da una prova come kitchen-hand avuta buon esito, nella quale i colleghi si sono dimostrati interessati al mio operato e favorevoli ad un’eventuale assunzione, il tutto grazie ad una serata di prova in settimana su un altro posto -non andata a buon fine- dove ho imparato a muovermi in una cucina più grande e a gestire le pulizie. In addizione a fine prova ho sostenuto un colloquio in un altro cafè nel quale mi sarebbe richiesta maggiore responsabilità in cucina e un altro trial è stato fissato per la settimana prossima, ma non cantando vittoria come uscita di emergenza cerco di crearmi la possibilità di raggiungere un amico irlandese fuori Melbourne per fare flower-picking a 18 $ l’ora.

Per quante difficoltà abbia vissuto finora e quante ancora ne stia vivendo, lo spronarsi a migliorare la propria condizione è già un risultato che in fin dei conti ti fa pensare “No, non è stato un buco nell’acqua venire fino a qua”, anche se è un parere sempre mutevole. Sperando in un minimo aggancio di stabilità che mi sposti quantomeno un po’ dal baratro in cui sono vicino, il lavoro che dovrò iniziare a fare sarà nuovamente mentale, ovvero quello di iniziare a sentire i propri progetti futuri come qualcosa di realmente attuabile, lo stato attuale come un mezzo per potersi dedicare a ciò che si vuole veramente anche se a costo di sacrifici, pronti veramente a sentirsi dire “don’t worry”. Idealismo forse, nella mia situazione precaria è ancora facile cadere tra stati emotivi opposti dettati dall'umore, non si sa mai che il destino voglia che io mi avvicini ancora di più all’orlo per dover tirare fuori tutto il meglio di me, o il peggio.

I need my conscience to keep watch over me
To protect me from myself
So I can wear honesty like a crown on my head
When I walk into the promised land

Nell’ultimo paio di mesi ho vissuto diversi stati emotivi e mentali, a lungo ho avuto modo di ragionare sulla mia personalità e sulla via che ho intrapreso, diverse testimonianze mi hanno aiutato a configurare ciò che voglio essere nella vita. Vi parlerò della generosità ad esempio, di come mi sia stata donata la possibilità di avere un posto caldo e accogliente come casa da persone che fondamentalmente avrebbero potuto non muovere un dito nei miei confronti, come tanti altri sconosciuti legittimamente fanno. Seguendo una nuova amicizia al di fuori dalla farm mi sono ritrovato al Hobart Hostel, un delizioso ostello poco fuori dal centro cittadino -il migliore in cui sia stato finora- gestito da una coppia di immigrati portoghesi di lunga data. Lì ho conosciuto una ragazza della Valtellina, da 3 mesi in Australia, che lavorava in loco e contemporaneamente fungeva da responsabile notturna dell’albergo. Un compito che semplicemente permetteva al gestore di tornare a dormire a casa sua, con i soli oneri rimanenti di controllare eventuali problemi in caso di attivazione dell’allarme, invitare ospiti rumorosi alla calma nelle ore notturne e rispondere a possibili chiamate dopo l’orario di chiusura, il tutto ricompensato con una camera singola dotata di scrivania, comodino e frigo ad uso personale. Una manna non indifferente per chi è abituato a considerare casa un piano di un letto a castello in una stanza condivisa con non meno di 6 persone e raramente a pagare meno di 20 $ al giorno per tanto.

Dopo un mese di sola pratica d’inglese o sola alternativa silenzio, una lunga chiacchierata in lingua madre è stata liberatoria, soprattutto avendo trovato come interlocutrice una persona affine, le cui motivazioni di partenza erano simili quanto buona parte della visione del mondo… la ragazza in questione dopo 3 mesi e alcuni obbiettivi raggiunti era in procinto di tornare a casa passando prima per la Nuova Zelanda per qualche settimana, complice l’imminente nascita di nipoti, la mancanza soffocante delle montagne -quelle vere, non le dolci colline tasmane- ma fondamentalmente la stanchezza di una situazione in cui amicizie andavano e venivano, di un’impresa che lasciava sempre un chiodo di solitudine conficcato tra le costole, senza alcuna vera compagnia permanente con la quale condividere gli eventi. Chiacchierando inevitabilmente delle reciproche esperienze lavorative il consiglio datomi è stato quello di fermarsi ad Hobart per cercare un lavoro, come incentivo l’intercessione con il gestore per farmi ereditare il posto come guardiano notturno. Inutile dire che la proposta mi è suonata subito allettante e non ho esitato a considerarla in altro modo che positiva: raramente posso dire che colpi di culo del genere mi caschino in mano e sarebbe stato stupido non approfittarne, tuttalpiù che il mal di schiena ritornato dopo lo spostamento era di scarso incentivo al muoversi nuovamente. Ciò ovviamente cozzava con la realtà, ovvero quella di una cittadina con scarsa offerta di lavoro e avviata verso la bassa stagione, sulla quale mi ci confrontavo con il solito vecchio approccio di curriculum debole, consegna a mano e niente uso del telefono. Le due settimane a seguire sono state appunto di lotta contro il mal di schiena, qualche disegno, cazzeggio e sbattere la testa per un lavoro.

Non voglio dire però che sono state sprecate del tutto, l’opportunità mi ha dato modo di confrontarmi con delle persone splendide come ad esempio la coppia portoghese gestrice dell’ostello e i due ragazzi nativi americani che stavano lavorando temporaneamente come ricercatori per lo stato della Tasmania… persone con le quali ho condiviso valori e pensieri comuni, il concetto di “is the way I want to live”, storie di vita e allo stesso modo lo scoprire realtà che emergono da altri punti del mondo. Matt mi ha raccontato di come sia la vita nel Montana, tra persone non intrinsecamente cattive ma che finiscono per fare azioni cattive, di suo fratello che si sacrifica per il bene della famiglia tagliando barre d’acciaio, con le mani sempre più storpie per le condizioni di lavoro e una ferita d’arma da fuoco, Tony di come in Portogallo non riusciva a dormire la notte per le preoccupazioni economiche e invece come qua abbia trovato una vita serena e rilassata. Non mi dilungherò ulteriormente su quali sono stati gli episodi che mi hanno colpito di più, sulla natura delle considerazioni scambiate, basti sapere che sono stati d’esempio per ricordarmi il modo in cui voglio condurre la mia vita e in parte per tenermi lontano da comportamenti sbagliati legati alla frustrazione dei momenti difficili. Eh si, perché questi sono sempre dietro all’angolo… non parlo di furti o chissà che cosa, ma di azioni meschine, per vendetta, per invidia o quant’altro. Il resistere alla tentazione della violenza verso chi si approccia con comportamenti irrispettosi, ritorsioni vigliacche a queste azioni, lo scacciare pensieri di invidia o il fastidio provocato da qualcuno per motivi puramente irrazionali.

Tutte cose che mi sono passate per la testa nel momento più difficile, quello in cui avrei voluto gettare la spugna e tornarmene a casa da sconfitto, tutte cose che col senno di poi riconosci come frutto della frustrazione del non riuscire in ciò che si vuole, del sentirsi sempre schiavi dell’approvazione altrui e di una pigrizia paranoide e vischiosa che trascina in un circolo vizioso che non porta a nulla. Non credo sia il modo migliore di confrontarmi col mondo e me stesso ma il nemico più grande che continuo a percepire è quello che vedo allo specchio. Colui che non posso realmente sconfiggere ma che devo farmi amico, quello che mi intrappola e deteriora le mie azioni, che mi rende insicuro e debole anche sui movimenti più banali quando mi alleno, che mi inchioda alla pigrizia e alle mie paure, da quelle concrete alle più irrazionali e superstiziose, che mi giudica costantemente. Mi sono costruito un dio dentro di me stesso e l’ho eletto tanto a giudice e castigatore della mia persona quanto ad esempio di ciò che vorrei essere, e adesso è il momento di iniziare ad affrontarlo gradualmente, a controllarlo. Voglio iniziare a vivere serenamente, a non inventare scuse per ogni sfida dal quale mi ritiro, ad ottenere ciò che voglio senza farmi troppi scrupoli ma restando sempre dalla parte del giusto, a liberarmi da questa pigrizia e a VIAGGIARE.  Quattro mesi in questo viaggio, ormai più che in un altro lato del mondo dentro di me stesso.

giovedì 29 marzo 2012

Memorie dell’apple-picker

Vi avevo lasciati con il don’t give up e in certo senso ho rispettato il mio proposito. In un certo senso perché ho definitivamente constatato che a Sidney trovare un lavoro sarebbe stata un’impresa troppo dispendiosa in termini di tempo e denaro. Mi sono arreso si, ma all’evidenza che il periodo in cui mi trovo è forse uno dei peggiori per ottenere un lavoro, la città è in off-season per quello che riguarda il turismo vero e proprio, ma in compenso è inflazionata dal turismo dei backpackers, una moltitudine di zainisti come me, desiderosi di trovare un lavoro occasionale con il quale raccogliere abbastanza denaro da poter proseguire il loro viaggio, nella maggior parte dei casi verso il Queensland attraverso la calda east-coast. Non voglio dire che in Sydney non ci siano possibilità di trovare lavoro, ma semplicemente che se il tuo obbiettivo è quello di muoverti l’impresa non ti sarà per niente facile, dato che molti non assumono a priori persone con il working holiday visa e molti altri ti chiedono di stare per almeno 5 mesi nella città se vuoi lavorare per loro. Aggiungeteci sopra un inglese debole come ulteriore spina sul fianco e il gioco è fatto. 
La mia ultima settimana l’ho passata nell’indecisione di cosa fare, come muovermi e aspettando una chiamata sul cellulare per sapere se qualcuno voleva o no assumermi, ma di contro l’ho spesa cercando di divertirmi e sfruttare quelli che forse sarebbero potuti essere i miei ultimi giorni in Australia. Trascinato contro la mia volontà in un nuovo ostello  e separandomi così dalle amicizie che ero riuscito ad instaurare nel primo, dopo un paio di giorni di spaesamento ho iniziato ad integrarmi con la nuova realtà, conoscendo nuove persone tra cui:

- Melissa, studentessa portoghese reduce da due anni di studio a Londra, dotata di una brillante cultura ma soprattutto della capacità di trascinare le persone con la sua solarità e rara bellezza, alla quale buona parte dei ragazzi dell’ostello credo abbia lasciato giù un pezzo di cuore, me compreso e nuovamente rammaricato dal mio inglese ridicolo che non mi permette di esprimermi neanche a metà del suo livello;

- Il Còg, il fiero marchigiano accompagnato dallo “zio” Nico, in visita dell’amico solo per una settimana in Australia, ai quali sono debitore di incoraggiamenti, compagnia italica, numerose birre e di uno spirito un po’ più positivo ma anche incurante nei confronti della situazione complicata;

- Will il trascinante gallese con Jimmy Hendrix tatuato sulla spalla e il compagnone bombardiere inglese Phil, che praticamente mi hanno offerto una sbornia dopo una bella bevuta appena la sera precedente contro le loro pressoché costanti ubriacature serali.

Questi solo i più importanti, poi ci sarebbero da aggiungere Jerome, il simpatico danese compagnone del còg, Dane, ex free-runner e musicista di strada gallese dagli occhi blu che conquista tanti dollari baskerando quanti cuori di ragazze sorridendo, la bella bionda svedese che non voleva accettare il fatto che fossi italiano e non tedesco o russo, l’amichevole olandese di cui non ricordo il nome -Marcus?-, aspirante pittore e curioso nel voler imparare frasi e ricette straniere, Andrea, ragazza ventenne danese in visita solo una notte e in viaggio in giro per il mondo da quasi 8 mesi. Queste solo alcune delle persone con le quali ho passato l’ultima settimana a Sydney, meno ossessionato dai soldi e più tranquillo, tanto da permettermi di andare a vedere Aphex Twin e perdere il cellulare in metro, salvo poi uscire coi ragazzi a ballare di nuovo.

Posso dire che è con un po’ di tristezza che ho iniziato ad impacchettare le mie robe dopo aver comprato per 170 $ il mio biglietto per Hobart, intenzionato a cercare una farm o perlomeno a spendere gli ultimi risparmi visitando uno dei miei obbiettivi qua in Australia: la Tasmania. È così che mi sono trovato in una città, molto più grande di una come Padova ma densamente meno popolata, che trovo comodo definire “indie”. Come m’immagino possa essere una Vancouver o una Seattle -sebbene non abbia realmente idea di come siano e a malapena potrei indicarvi dove si trovino in una mappa- così è Hobart: città tranquilla, pulita e ordinata in bei blocchi, anonima dal punto di vista storico nonostante sia la seconda città più antica dopo Sydney, con un porto puramente commerciale e interessante solo per i mezzi ormeggiati, ma dotata a sorpresa di vicoletti nascosti che portano in piccole calli, dove si trovano botteghe di pittori o di artigiani della pelle, esposizioni artistiche, deliziosi cafè e attività varie che magicamente non più tardi delle 9 si estinguono tutte, lasciando una città già poco affollata più desolante di Veternigo in ferragosto.
Un punto interessante è quello musicale: la definizione che ho dato alla città di “indie” è dovuta tanto all’estetica della città quanto all’aver scoperto su wikipedia che il luogo è culla di numerose band del genere; sfogliando poi un giornale d’informazione sugli eventi live locali si può constatare che sebbene con nomi meno grandi di quelli di Sydney, Hobart offre una ricca scelta di concerti anche di nicchia, tra cui un nome che mi è balzato per primo all’occhio quello di Scott Kelly (Neurosis) in tournee da solista; passeggiando in giro poi è facile trovare una sequela di negozi di strumenti musicali sublimemente forniti nonostante le ridotte dimensioni, nei quali mi sono fiondato per provare chitarre, bassi acustici e banjo a scrocco, giusto per sfogare per pochi minuti il bisogno di muovere le mani a ritmo -dato che qua la poca privacy degli ostelli rende impossibile anche l’occasionale onanismo- e sinceramente volenteroso di acquistare una chitarrina di bassa qualità e dalle dimensioni ridotte per 100 $, tanto è il desiderio di avere nuovamente uno strumento musicale a portata di mano… Una voce nella testa mi ha però suggerito “non spendere i soldi prima di averli in mano, non caricarti di pesi quando non sai se dovrai muoverti a breve”.
Un vero peccato, ma forse la scelta migliore considerata la situazione in cu mi sarei trovato a breve.

Nel mio carino ed economico ostello, il “Tassie Backpackers”, dopo aver conosciuto una coppia di francesi sono stato da loro indirizzato verso una loro compaesana in cerca di persone per raggiungere una farm a sud in cui stava iniziando la stagione delle mele. Chiariamo questa parte: io non ho fatto praticamente niente. Dato il suo livello d’inglese quasi da madrelingua, la francese ha chiamato gli uffici del National Harvest, ha parlato con il farmer, ha chiesto informazioni per i biglietti del bus per raggiungere la zona, io ho solo offerto un cappuccino “’cauze u zaved my azz” e ci ho maturato sopra un’infinita serie di seghe mentali su quanti dollaroni avrei potuto fare trattandosi di un lavoro pagato 30 $ per bin di mele, su quanto potesse essere interessante vivere a contatto con una famiglia australiana ed essere nutrito ed ospitato da loro per 130 $ a settimana, su come magari la stagione delle mele con la francese (decisamente non bella ma interessante) avrebbe potuto portare a qualche risvolto particolare etc. etc.

Prima sopresa: la francese mi suggerisce di comprare delle scorte perché non crede che il cibo sia incluso, io mi porto dietro quello che già avevo in ostello rimanente, ovvero una bottiglia d’olio extra vergine (non posso viverne senza), una lattina di albicocche, un pacco di pasta. Nel frattempo dopo le iniziali conversazioni ognuno sembra essere ritornato a farsi i cazzi suoi, a scrivere su facebook le proprie menate e quant’altro; a parte formalità e cose necessarie l’ignorarsi reciprocamente regna sovrano e non sembra pesare a nessuno dei due.

Mercoledì si parte finalmente diretti verso Dover, un viaggio in autobus spalla a spalla con studenti teenager in divisa di ritorno dalla scuola, ovviamente io e la francese seduti in posti differenti che non capiti -per carità- di toccarsi. Il paesaggio è monotono, piccole cittadine piatte ed anonime, serie di colline che ricordano la mia Romagna ma prive di alcunché d’interessante che non siano i soliti alberi della gomma o terra rossa, ogni tanto qualche bello scorcio e soprattutto qualche studentessa carina sulla quale sognarci un po’ sopra.
Dopo un’ora e mezza di scarico di studenti, il conducente ci dice che siamo arrivati a Dover, per quello che vedo un manipolo di case, un minuscolo distributore e un’agenzia immobiliare circondati dalla campagna, senza alcun cartello ad annunciare precedentemente l’arrivo nel paese. La francese sembra sempre un po’ upset, un po’ nevrotica e la prima chiamata per avvertire il farmer che siamo arrivati a destinazione dà come esito un numero inesistente. Già rasenta la sconsolazione e il nervosismo, io semplicemente ricontrollo nel suo I-pad e scopro che il numero da lei imputato nel mio telefono non corrisponde, si risolve l’inghippo con qualche incomprensione e finalmente si chiama e si attende il boss, che arriva in un quarto d’ora con il suo bel pick-up bianco nel quale carichiamo bagagli e le nostre persone.

L’inglese in cui si esprime è decisamente pulito e riesco a comprendere quasi tutto senza problemi; dice di chiamarsi Malcom e di aver vissuto per dieci anni a Sydney e poi aver deciso di tornare in Tasmania per continuare il lavoro di famiglia, fa qualche domanda su come ci è sembrata Sydney e nel frattempo ci si addentra in uno sterrato fangoso ricolmo di meli ai lati.
Altra sorpresa: non siamo soli, dai campi spuntano numerosi asiatici, al quale commento della francese “is full of asian people here” il farmer risponde con qualche disapprezzamento nei loro confronti, ma specificando che non è “racist at all”. Sorpresa  conseguente: la comoda e accogliente casa del farmer in verità è una brutta baracca di lamiera costruita appositamente per ospitare i lavoratori; un locale dotato di quasi tutti i confort -televisione, divani, docce, cessi, lavelli, frigo, angolo cucina e letti a castello- ma tristemente sporco, freddo e affollato, definitivamente non meritevole dei 130 $ settimanali tantomeno che nessun pasto è incluso.

Ed ecco gli ospiti: a sinistra tre cinesi (tutti hong-kongiani qua) -Hin, Loki, l’altro- di-cui-non-so-il-nome-che-sembra-il-più-vecchio-e-ha-la-macchina-e-parla-solo-con-cinesi-e-secondo-me-è-un-pelo-razzista- più una tedesca dalla voce insicura reduce dalla sua prima giornata, a destra (in due camere separate) altre due cinesi -Yoko e la dolce Jenny-, due ragazzi inglesi palestrati da Newcastle pieni di confezioni di proteine -Ed e Garf- e un altro cinese, Kelvin.
Porto dentro le mie cose tranquillo, le soprese sono state come gocce d’acqua su una superficie liscia ed impermeabile: indifferenti, scivolano giù senza impregnarmi tantomeno scalfirmi, anzi l’atmosfera è decisamente interessante e ciò mi piace.
Ma ecco l’ultima sorpresa, la più amara: mi presento allo spigliato Loki, il quale saputo della mia origine italiana mi saluta con un “Uuuuu, we got a badass over here” e al quale domando subito info riguardo al lavoro; mi dice che non è male e io gli chiedo se è vero che è 30 dollari per bucket. Per bin, risponde lui. Io penso che bucket e bin siano la stessa cosa, lui mi accompagna fuori ed ecco la verità. Il bin è qualcosa che io chiamerei più crate, dato che il cantonese mi indica una cassa di legno quadrata un metro e mezzo per un metro e mezzo e alta un altro mezzo abbondante.
Ok, là inizio ad essere un po’ più incazzato, ma tutto sommato penso di poterne cavare ancora abbastanza denaro, tuttalpiù che la tedesca reduce dalla sua prima giornata di lavoro è riuscita a completare 3 bins e mezzo. Mi dico io: se lei è riuscita a farne 3 e mezzo, io sicuramente da badass hardworker ne farò 5. Dopo un po’ di chillin’ around e ammirazione dello splendido paesaggio agricolo all’imbrunire, mi chiudo nella mia sezione del dormitorio, in camera con gli inglesi e l’altro cinese; il pavimento è sporco come quello di un magazzino e devo fare attenzione a dove appoggiare le mie cose per non impolverarle, il materasso del letto è nuovo ma il farmer mi chiede di non rimuovere l’involucro di plastica per non rovinarlo.

 Le successive ore sono state un crescendo di scricchiolii assillanti, inglesi russanti e soprattutto un freddo crescente e paralizzante, attraverso il quale ho iniziato a vestirmi sempre più a strati - già pentito di avere abbandonato vestiti pesanti a Sydney per alleggerire il bagaglio-: prima la maglia a maniche lunghe, poi la felpa invernale, i pantaloni d’allenamento e i calzini di lana, il tutto dentro al mio sacco a pelo, visto che al momento sembra non ci siano coperte disponibili. La mattina successiva il risveglio è stato da semicongelato, fattore che perlomeno mi ha permesso di constatare in un quarto d’ora abbondante  l’unica cosa veramente buona della baracca: docce belle calde e funzionanti, per riprendere l’uso degli arti e togliere il gelo da testa e corpo. Una frugale colazione a base delle pesche sciroppate in lattina ed eccoci in mezzo ai meli, con la propria borsa a tracolla per raccogliere le mele, la propria scala di ferro treppiedi per raccogliere i frutti in alto, le indicazioni da Lee -fratello di Malcom dall’accento decisamente più incomprensibile- su come raccogliere e posare all’interno della borsa e poi dentro il recipiente.

Intanto bisogna avere in mente una cosa: qua non si parla di un meleto a conduzione familiare, ma di ettari di agricoltura intensiva, sempre a conduzione familiare. Poi bisogna capire che per riempire un bin velocemente bisogna essere fortunati: l’area assegnata deve avere poche mele al top e tante al bottom, quelle devono essere rigorosamente grosse e mature, non marcie o bacate, devono esserci pochi pendii, il farmer deve spostarvi il bin abbastanza di frequente con il muletto, la temperatura e le condizioni metereologiche devono essere ideali e -soprattutto- si deve essere fottutamente veloci. I tempi sono razionalizzati in secondi, non minuti; esitare per 5 secondi di più su una mela significa perdere dai 2 ai 4 minuti per riempire una bag dalle 30 alle 50 unità (previsione ottimistica dipendente dalle dimensioni del frutto) che dovrebbe essere riempita e svuotata in non più di 4; considerando che ce ne vogliono non meno di 30-40 per riempire un bin, se impiegherete 8 minuti per ogni singola operazione il tempo totale sarà di circa 4 ore per riempirne solo uno. Con queste prerogative io e la francese in  mezza mattina siamo riusciti a  riempirne uno assieme, poi ognuno ha trascinato la propria scala in una direzione diversa attraverso i campi per applicarsi ad una nuova area in solitudine.

Il bilancio del primo giorno in 10 ore, con molta fatica, una colazione ridicola, nessun pranzo e un quasi suicidio per raggiungere l’esoso supermercato più vicino, tra sali e scendi collinari con una delle due bici disponibili per i lavoratori -con freni quasi assenti, catena praticamente arrugginita e manubrio storto, ovviamente un peso morto da trascinarsi a piedi al ritorno- è stato di quasi 2 bins e mezzo. Il giorno dopo, ancora congelato dato la coperta che non vuole arrivare nonostante le richieste, ma con una colazione migliore e un semplice pranzo a base di uova e bacon -costatomi la perdita di un’ora e mezza tra il cucinare, lavare i piatti e principalmente camminare tra l’area di raccolta e la baracca- è stato a malapena di 3.

Segue il finesettimana, qualche passeggiata a vedere l’anonima spiaggia di Dover, ad allenarsi un po’ in un bella struttura per il work-out poco lontana da essa, nuove spese, qualche parola e birra offerte dai due newcastelliani -per inciso anche loro con un accento ostico in cui principalmente si capisce una sequenza infinita di fuck e varianti- e prima, di nuovo day-off il lunedì a causa di festa nazionale, poi, forse blocco totale del lavoro in settimana a causa di mele poco pronte, ma con la bella notizia che il lavoro è in regola e vale anche per maturare i giorni per il secondo visto.
Ne approfitto così per allenarmi ancora vicino alla spiaggia e, in un momento di pura imbecillità, per cadere brutalmente di schiena provando un movimento troppo al di fuori della mia portata, restare paralizzato dal dolore a terra per quasi 20 minuti, trascinarmi agonizzante e zoppo per altri 20 alla farmacia più vicina e farmi dare dei ridicoli antinfiammatori per 7 dollari, con i quali avrei affrontato altri 40 minuti di camminata -impossibilitato a piegare la schiena, a girarla, con gamba e fianco quasi paralizzati a causa del nervo sciatico incandescente e con una paura fottuta di essermi danneggiato la spina dorsale o rotto il bacino- per ritornare all’accomodation e successivamente cercare di togliermi i vestiti per fare una doccia bollente come suggeritomi, scroccare alla francese la connessione tramite sim sul suo i-pad per domandare consigli ad amici più ferrati in materia, farmi prestare una borsa dell’acqua calda e rantolare verso il letto con quella attaccata sulla schiena finché non avrei trovato abrasioni sulla pelle per il calore.
Due giorni dopo, miracolosamente si riprendeva a lavorare. Tutti tranne me. Preso ancora come un rudere, ma decisamente migliorato a forza di esercizi, docce calde, borsa dell’acqua, tonnellate di antiinfiammatori e una cassa di birra il sabato sera per fare compagnia a quelle dei ragazzi inglesi, volutamente dissoluto nei confronti dei soldi già spesi e non guadagnati, sicuro che con i miei nuovi stivali di gomma da 30 bucks e la scatoletta per mettere il pranzo da consumare direttamente nell’area di lavoro, sarei riuscito a fare -schiena permettendo il primo giorno- abbastanza bins nei giorni successivi.

Realtà e nuova coscienza

Mi sono chiesto spesso, prima e dopo essere partito, cosa significasse per me questo viaggio. La fantomatica storia di “fare i soldi” era già una disillusione prima di partire, figurarsi ora che rischio di rimanerne senza pur lavorando. I paesaggi si, ripagano in parte l’arrivo in questo posto: a Dover ad esempio i tramonti e le albe sono sempre qualcosa di spettacolare e la cittadina, pur tristemente priva di alcunché più vecchio di un secolo, ha il fascino di un film retrò americano sui piccoli paesi di campagna, ma con qualcosa di più esotico. Case di legno e lamiera con la vernice scolorata e scrostata che dominano il paesaggio sopra una collina o guardano il mare da pochi metri immerse in spire di rose. Cavalli dal narcisismo quasi umano che si avvicinano per farsi fotografare meglio, spostandosi dall’ombra di enormi gum-tree o forse salici piangenti? Ovini sconosciuti che pascolano in branco al tramonto, con sullo sfondo due montagne dai picchi gemelli ma di proporzioni differenti per la distanza.
E ancora tramonti e albe folgoranti, la notte un cielo stellato dalle costellazioni indecifrabili e luminosissime, che compare di tanto in tanto da una distesa piatta, quasi come fossero dipinte, di nuvole veloci e scure. E poi la luna, che appare all’improvviso piena, squarciando le nubi e accompagnata dal fragore assordante delle cicale e dai canti bizzarri di un uccello sconosciuto -forse un kookaburra-; poco più grande di quella che si può vedere da noi, ma accecante dalla luminosità tipica e incandescente del sole australiano, la caratteristica principale, assieme alla distesa di nuvole, che rende l’idea di quanto sia fottutamente vasto e incommensurabile questo paese. Di certo abbastanza per esserne rapiti e restare incantati e sognanti di fronte a tanta bellezza, sicuramente una minima parte in confronto ai paesaggi che già solo la Tasmania di per sé può offrire se si decide di esplorarla tutta.

A good point, but not the reason, sicuramente per cui sono qua. Non sono indifferente allo stupore che qualcosa di speciale può offrire, anzi forse ho una sensibilità maggiore di tanti altri nel cogliere la bellezza intrinseca di un soggetto, scomporla in singoli elementi e cercare di renderne l’idea attraverso una sequenza di fotografie. Semplicemente l’incanto è relativo: se si vive a pochi minuti da una delle città più belle al mondo -Venezia-, se si ha trascorso l’infanzia nella bellezza campestre della Romagna appenninica, se a 5 anni si ha visto le spiagge tropicali delle Filippine o le immense campane dorate di Bangkok e se di tanto in tanto si sente dentro di sé gli afrori e le sensazioni nostalgiche di una terra percepita solo in stadio embrionale, l’India, è difficile che qualcosa possa stupire ancora. E a quel punto il confronto non regge, tra due tortelloni con un bicchiere di sangiovese, accompagnati da due parole e una bestemmia con accento romagnolo, anziché l’ignoto che -non- si può mangiare fuori qua -causa prezzo-, quasi sicuramente disgustoso, assieme ad un “Ghiddiyewitye” che si supporrebbe essere stato una volta inglese, oppure un bicchiere di sidro sul ponte di Bassano anziché una cassa di birra costosissima in uno squallido bottleshop, assieme ad un gentile ma formale “G’ddeitoye” o un ”hau’ryeu?”, rigorosamente anche qua senza scontrino. Qual è il motivo dunque? Finora quello che trovo più valido è semplicemente “Get the hell out of here with huge balls”, ovvero acquisire la coscienza del mio valore, tornare a casa con le “palle”, conoscere persone e non essere spaventato da loro, enjoy the life anche se ci si trova in una baracca fredda ed esosa a fare un lavoro giusto un paio di gradini sopra il caporalato.

Un episodio che voglio raccontarvi è quello del sabato della cassa di birra e degli stivali: arrivato alla baracca dopo gli acquisti trovo Ed e Garf nella confusione, seduti sul divano spostato verso la televisione e assi di legno ovunque sparse. Sono là fermi a sorseggiare birra guardando terrorizzati un ragno peloso grande quanto la mia mano, fermo nell’infisso della porta scorrevole della loro camera; ci sono stati quasi un’ora in quella posizione dopo aver cercato le forze per uccidere quella creatura, ma troppo spaventati da eventuali reazioni in caso d’errore.
L’ingrato compito tocca a me, che poco spaventato eseguo velocemente con una delle assi di legno, dispiaciuto per aver tolto la vita ad un animale così interessante. L’impresa mi porta l’appellativo di spider-killer e si festeggia ciò -e il Saint Patrick’s day- svuotando le reciproche casse di birra in allegria, discorrendo su come lavorativamente anche l’Inghilterra sia “totally fucked up” ma come Newcastle sia sicura, senza ragni, nessun altro tipo di animale strano e nocivo e soprattutto senza gente francese. La frecciatina è rivolta soprattutto alle due nuove arrivate, delle francesi tronfie e fastidiose, che a breve avrei odiato per la loro cialtronaggine, opportunismo, per lo spirito da cazzeggiatrici rumorose sul lavoro, per una serie di motivi più o meno irrazionali ma soprattutto per lo sbigottimento (o forse la paura) dell’aver trovato persone che sebbene in Australia dal doppio del mio tempo hanno ancora un inglese pessimo, che non contente allenano guardandosi film sul computer rigorosamente in francese. Nonostante ciò c’è la capacità di divertirsi anche in compagnia di gente non proprio affine, dopo essere stato spesso e volentieri condizionato dal giudizio altrui, cercando di piacere alle altre persone o di isolarmi in caso di difficoltà, mi riscopro più sereno e conscio che non devo per forza piacere a tutti e viceversa, nemmeno litigarci per fissazioni personali, tantomeno chiudermi in me stesso più del necessario. Forse più libero, forse con nuove maschere, ma sinceramente più felice e appagato da una vita al limite della sopravvivenza e da come solo si può essere dopo aver vissuto un dolore fisico che si credeva eterno, che invece sta svanendo giorno dopo giorno.


Questa mattina ho combattuto. Contro il freddo, contro la pioggia, la stanchezza e me stesso. Non è stato propriamente un atto dimostrativo nei miei confronti, credo di essere ormai certo di cosa è la tenacia e di quanto sia radicata in me, di sapere quali sono i miei limiti e come lavorarci sopra: anni difficili, lavori difficili, condizioni climatiche avverse e stanchezza mi hanno già temprato fisicamente, la coscienza di quanto posso spingere oltre, grazie al crederci con la testa, è qualcosa che è arrivato più tardi. Sport, disciplina, stile di vita, qualsiasi cosa possa essere, il parkour è stato un passo ulteriore verso la determinazione e la capacità di spingersi avanti, ma ora forse qualcosa è esaurito in tutto ciò, non devo trovare il modo di dimostrare alcunché a nessuno, tanto più a me stesso. Questo non vuol dire smettere, sia ben chiaro, quando una cosa ti piace non c’è motivo di abbandonarla, tuttalpiù che ci sono ancora tante sfide aperte da completare e ne spuntano sempre di nuove. Semplicemente dubito che il lavoro fisico/mentale su questa ottica mi sia più utile a migliorare la mia persona anziché solo nelle prestazioni fisiche, e non a renderla più naturale e decisa. Non sento più il bisogno di dimostrare a me stesso nulla da questo punto di vista, tantomeno dopo questa mattina, in cui solo io e Georg -il nuovo arrivato, un ragazzo trentunenne tedesco, pelato e con un immenso pizzetto “goatie” rosso, reduce da un anno d’Asia e dai gusti musicali finalmente decenti- ci siamo trovati alle 8 davanti ai nostri bin residui ed intenzionati a completarli nonostante il freddo prepotente e la pioggia che ha fatto esitare perfino i cinesi, arrivati assieme alle francesi due ore dopo il nostro inizio. Inutile dire che è stata una lotta ardua, nessun isterismo, solo la mia giacca impermeabile, gli stivali di gomma, cappello e auricolari e una grande necessità di lavorare dopo il fermo per la schiena e le festività e una settimana tutt’altro che entusiasmante. Lunedì 2 bins e quasi due terzi in 10 ore, schiena dolorante ma peggio ancora i piedi, lancinanti dentro i nuovi stivali e costretti a stare per la maggior parte del tempo sui pioli della scala, trattandosi di un area in cui le mele buone crescono solo sulle cime. Il giorno dopo ancora peggio, completato il bin del giorno precedente ma arrancante nel finirne altri due ed iniziarne uno nuovo, sotto l’afa, un sole accecante e con gli arti distrutti e doloranti. Mercoledì appena capace di finire il bin precedente e iniziarne un altro, di nuovo con le scarpe normali, speranzoso che se per due giorni gli stivali di gomma sono stati inutili, non sarebbero serviti anche quel giorno. E invece piove. Mi fiondo di corsa verso il town mall, bisognoso di usufruire dell’internet point a 6 dollari l’ora e di comprare cibo per i giorni successivi. Ho il mio primo assegno dei primi ed unici due giorni di lavoro delle settimane precedenti, il quale mi ha rivelato con orrore che le tasse non sono incluse dal prezzo stabilito -36 per le gala apples e 32 per le red delicious- e che per qualche ignoto motivo non riesco a riscuotere al supermercato. Il bilancio del giorno è appena di un bin del giorno precedente completato e un mezzo nuovo di red delicious iniziato.

Giovedì un nuovo giorno, sto diventando più veloce ma il record di 16 bins del farmer di qualche anno prima sembra un miraggio, tantomeno stare dietro alla media di 5-6 giornalieri di Loki ed Hin. Verso mezzogiorno mi avvio ancora verso il paese per cercare di riscuotere l’assegno, che con qualche difficoltà che ancora non riesco a comprendere finalmente riesco ad ottenere. Una moltitudine di pensieri mi turbinano nella testa, alcuni relativi alla soddisfazione della velocità che finalmente sto acquisendo, la maggior parte nuovamente al sentirsi un immigrato, ultima ruota del carro che non capisce bene la lingua e la burocrazia di un paese straniero, facilmente soggetto allo sfruttamento e ai raggiri, che matura odio per il dover rinunciare a tutto se non lo stretto essenziale per sopravvivere. Ed e Garf se ne sono andati la mattina presto, hanno capito che questa farm è una bullshit e vanno a tentare la fortuna a Brisbane dove li attende un amico; non so se la fortuna sarà dalla loro, ma di certo l’inglese da madrelingua si. La mia testa invece macina pensieri e cresce in me l’orgoglio per quello che sono e non ho mai capito essere: una persona tenace, coraggiosa che non ha alcun motivo per farsi sminuire dagli altri.
Uno di quelli che anziché rimanere fissi per l’eternità nello stesso punto a compiangersi, a lamentarsi della propria condizione lavorativa, di come il proprio paese faccia schifo, ma in verità ben felice di rimanere con il culo ben saldo sulla poltrona, accudito e sfamato per poter fare la vita da eterno teenager, decide di raccogliere il proprio coraggio e fiondarsi con determinazione in un’impresa dall’esito insicuro, perché la vita così com’è non gli piace e bisogna lottare per cambiarla. E ai grassi miei compaesani, pasciuti nell’abbondanza, tronfi nel loro orgoglio frutto di una sovra-estimazione di se stessi, ora innervositi dalla fine dell’epoca dorata ma sempre convinti che gli immigrati ci rubano il lavoro e che devono andarsene tutti a casa loro, voglio domandare: chi te li raccoglie i pomodori che mangi avidamente per un paio d’euro al chilo? E le mele? Le patate? L’africano che lavora in Sicilia per raccoglierteli per 5 euro al giorno, vivendo in un letamaio che gliene costa 3, il manovale rumeno che paghi in nero una miseria, il bangladeshiano che vende le rose ai ristoranti tra lo scherno della plebaglia e IO che raccolgo mele in un paese straniero valiamo centinaia di volte quello che valete VOI, perché dalla nostra abbiamo il coraggio e la determinazione di fare qualcosa di umile e spesso massacrante in una realtà sconosciuta pur di cercare di sopravvivere e di ambire ad una vita migliore. Con una nuova tenacia, finalmente convinto che valgo e valgo molto, ho raccolto avidamente ed energicamente le ultime mele della giornata. Se devi essere veloce e il tuo lavoro è pagato a cottimo, la qualità può pure essere abissata dalla necessità e dalla determinazione, le mani affondano a strappare grappoli interi anziché esitare sulle giuste caratteristiche di un frutto. Bilancio della giornata quasi 4 bin completati, finalmente sono riuscito a ripagare le spese di due settimane e mezzo di permanenza. Come premio a ricomporre i miei muscoli sempre più sfiniti, una deliziosa bistecca bella spessa trovata in offerta per 5 $, grigliata un poco oltre che al sangue sul barbecue elettrico con pepe, sale, origano e olio d’oliva, accompagnata in un letto di crema di avogado con salsa di soia e da pomodori freschi affettati, sotto lo sguardo ipnotizzato delle francesi vittime della loro stessa inettitudine culinaria.

L’inverno è alle porte qua in Tasmania e le correnti fredde dell’Antartide spingono onde di vento gelido, pioggia fredda, di quella fina, pungente e penetrante fino alle ossa. E oggi ho lottato, incespicando sulla scala scivolosa nonostante il bagnato e le mani che progressivamente perdono sensibilità, ma sereno e determinato perché “spingo il mio valore, niente rassegnazione”. Non il bisogno di mettersi alla prova, è la necessità di sopravvivere a guidare, con la coscienza di essere temprati e valorosi, consci che milioni di uomini nel passato hanno fatto ciò e milioni ancora lo faranno in futuro. Il bin del giorno precedente è completo, c’è tempo per iniziarne un altro finché la furia del vento e dell’acqua non rende definitivamente idiota il voler perseverare, considerando i venti minuti di cammino che servono per ritornare alla baracca. Una doccia che non capisco se gelida o bollente, con le sole mani a bruciare per il refluire del sangue nei vasi capillari, una cena sotto lamiere e plexiglass che amplificano come un bombardamento la furia della pioggia e del vento, che si insinua dalle numerose fessure, bagnando e congelando gli angoli. Il vapore esce fuori dalle nostre bocche dentro la baracca, è chiaro che stiamo scendendo abbondantemente sotto i 10 gradi e il sole è appena tramontato. Il letto sembra l’unico riparo vagamente caldo e nonostante il freddo e il dolore alla spalla persistente ogni notte, in una baracca umida e sporca non riesco a rimpiangere il mio aver preso la decisione di venire in questo paese, tantomeno l’essere stato scartato da un lavoro ingrato pieno di persone inette che cercano di farti sentire inferiore per sentire minore il peso delle loro scelte di vita.

E come ho lottato oggi, lotterò con determinazione anche domani,  senza il supporto del farmer a trascinarmi la cassa, con le intemperie ancora intermittenti ed improvvise, e con solo Georg come collega, entrambi decisi a cercare di recuperare i soldi spesi qua e a partire allo scadere della mia terza settimana con almeno un centinaio di dollari in più che all’arrivo. Ormai è chiaro che questa farm lavora sia sulle mele che sui lavoratori, quasi 5000 dollari mensili di media d’affitto per una baracca sono un po’ troppi, e quando vedi i picchi gemelli innevati a sud, capisci che qua non può solo che peggiorare. Le francesi sembrano un po’ meno allegre dell’inizio, quella con cui sono venuto qua è presa dal suo voler dimostrare a se stessa di potercela fare, rasentando cambi d’umore improvvisi e celando l’isterismo. Non sono una fighetta con l’I-pad che vuole diventare lo Steve Jobs del futuro, non m’interessa rischiare ulteriormente la mia salute di quanto non abbia già fatto fin'ora e non ho alcuna prova da sostenere qua che non sia un mero cercare di battere record per recuperare le giornate piovose a venire.
Solo i cinesi infine resisteranno, anche loro sono consci della situazione ma la cosa che gli interessa è maturare i giorni per il secondo visto e in più sono un gruppo ammirevolmente organizzato. Hanno la macchina, con la quale possono andare a fare la spesa nei supermercati più economici e -come m’immagino possano essere stati i nostri ragazzi del dopo guerra- amano andare a pescare le sere del finesettimana e portarsi a casa ostriche, cozze e pesci che la piccola e carina Jenny -che mi saluta con un “ziao” e alla quale ho dato i miei ultimi antiinfiammatori della schiena per una brutta infiammazione ad un ginocchio che la azzoppava- cucinerà, essendo la cuoca ufficiale delle cene della compagnia. Organizzati e per di più con Hin e Loki come asso nella manica nel completare un numero alto di di bin settimanali, riuscendo a sopperire all'esiguo numero che le due ragazze riescono a completare assieme.  Mercoledì la partenza con Georg, di nuovo ad Hobart e poi si vedrà. Ad essere sincero non senza qualche dispiacere, una vita del genere è piacevole se permette qualche comodità essenziale in più e non nego che in fin dei conti io e i fratelli farmer ci stavamo simpatici reciprocamente, sarà forse per l’istintivo riconoscersi come persone di campagna.
È solo tempo di muoversi ancora, seguo la mia volontà e non ho nessun rimorso, neanche di questa esperienza che non mi avrà portato denaro ma di sicuro mi ha aiutato a riacquisire l’orgoglio in me stesso che in patria andava perduto. 

Al prossimo capitolo.

lunedì 20 febbraio 2012

They said me: don't give up! But how?

Questa frase è un po' la situazione riassuntiva degli ultimi giorni, qua a Sydney, città nella quale sono arrivato da una settimana e mezza. Eh si, il mio famoso obiettivo del post precedente è proprio l'Australia, obiettivo con il quale ora mi ci devo confrontare con tutte le difficoltà che comporta: prima di tutto il constatare che Sydney è una delle città più costose al mondo, poi che il mio livello di inglese seppure non scarso risulta il più delle volte impacciato e timido e il cercare di tradurre le miriadi di accenti con cui mi devo confrontare è un compito estremamente faticoso. Con queste prerogative mi sono messo a cercare lavoro prima di quando mi ero prefissato, non so quanto mi ci vorrà ad ottenere lavoro ma prima mi muovo per evitare di trovarmi con l'acqua alla gola meglio è. La situazione qua non sembra delle migliori, l'alta stagione sembra essere quasi al termine e persino i madrelingua sembrano in difficoltà... di certo inglesi e altri anglosassoni ambiscono mediamente a lavori più prestigiosi, molti di loro non sembrano neanche seriamente alla ricerca o preoccupati, e altri ancora sono addirittura fuori ogni sera a fare baldoria (Kings Cross per inciso è uno dei quartieri più malfamati d'Australia, una specie di Jesolo perennemente in alta stagione con in più locali a luci rosse, prostitute e fumatori di crack giusto appena messo il naso fuori dall'ostello, ciononostante ridicolamente sicuro rispetto alla stazioni dei treni media nelle nostre grandi città). Tuttavia alcuni, come il tizio americano ex-compagno di stanza, sebbene madrelingua, sembrano prettamente negativi sulla situazione locale e di certo poco incoraggianti. 
Ovvia la conclusione: se non ce la fanno loro che parlano la lingua, ce la farò io che mi tocca far ripetere due o tre volte la stessa cosa?

Tuttavia la situazione in verità non è così tanto negativa come sembra, di certo è preoccupante ma almeno la prima ricerca ha dato i suoi piccoli risultati: al quinto curriculum consegnato ho trovato un lounge bar/ristorante dove mi hanno detto che erano al completo di personale ma che per quella sera (sabato) necessitavano di una mano... tempo di tornare di corsa all'ostello, lavarmi, mettermi una camicia e pantaloni lunghi come da loro richiesto, cenare con una banana e alle 6 p.m. ero di nuovo là. Il mio compito sostanzialmente consisteva nel fare l'aiutante al bancone, principalmente lavare bicchieri, lucidarli, di tanto in tanto tagliare la frutta per i cocktail, aiutare a prepararli (per inciso roba che non potrei fare non avendo la licenza per maneggiare alcolici, ovviamente se non per consumo personale), tenere pulito e portare fuori la spazzatura, più altri lavoretti vari al momento. Di certo l'agitazione la sentivo per bene, muoversi su un ambiente lavorativo a me sconosciuto (anche se sul curriculum è scritto il contrario), con colleghi e titolari quasi tutti puramente australiani e con un accento quasi totalmente indecifrabile è qualcosa che qua definisco "pretty scary". Fortunatamente per me il barman, nonostante l'incomprensibilità di ciò che diceva, è riuscito a farsi intendere sufficientemente anche a gesti per permettermi di capire cosa dovevo fare, di conseguenza io ho agito aiutandomi con un mio leggero talento che è quello dell'improvvisazione, sfruttando le precedenti esperienze lavorative come esempio, cercando di tenere alta la concentrazione e sembrare parzialmente a mio agio. Ovviamente molto easy all'inizio e fucking terrible dopo:  il numero crescente di persone comportava un numero sempre maggiore di bicchieri (dio quanto bevono gli aussie), caricare carrelli in lavastoviglie sempre più pesanti e traballanti, asciugare sempre più velocemente, rilavare le stesse cose perché lo straccio iniziava ad essere sporco e di conseguenza lasciava residui. Bilancio totale su 3-400 glasses lavati in 5-6 ore, solo due da champagne rotti e una decina da vino messi via con aloni evidenti. Padroni contenti, mi hanno ricompensato con due birre bevute in loco (una stupenda Estrella Galicia spagnola e una dolciastra e stomachevole The Apple Thief australiana) e 85 dollari cash-in-hand. Non moltissimo secondo lo standard australiano, ma comunque il minimo salariale di 15$ più un 2$ di tasse escluse essendo in nero, un punto d'inizio tutto sommato, accompagnato dalla promessa (mah) di richiamarmi appena avrebbero avuto bisogno. 

Tuttavia 85$ bisogna dire che coi costi qua sono quasi un cazzo di niente: 50 me ne andranno via per fare la spesa per mangiare, altri 40 per l'abbonamento settimanale a metro, bus e traghetti (quando i locali mi dicono che sono stati a Venezia, che è bellissima ma costosa mi verrebbe da dirgli "'r u fucking kiddin' me?"); per di più la prospettiva di fare il cleaner qua in ostello e avere qualche giorno di free-rent sembra difficoltosa, dato che le donne hanno il monopolio e ci sono una sfilza di persone in lista per questo. Quindi quello che mi serve è un lavoro sicuro e pagato almeno il minimo salariale, dato che di sicuro mensilmente spenderò non meno di 1400 dollari (350 per week) e con 2400 mensili riuscirei a metterne via abbastanza per stare qua un po' e poi muovermi con una base più solida. Qua purtroppo entrano in gioco le seghe mentali sul mio livello d'inglese, sulla mia capacità effettiva di ottenere un lavoro e non rischiare di finire tra gli exploited (non la band) che lavorano sotto altri italiani a stipendi in nero e da fame e non imparano l'inglese (10 dollari all'ora possono sembrare una buona paga in Italia, ma qua vuol dire che badando molto a spese riesci a metterne via non più di 200). Purtroppo rilassarsi a Bondi beach è un buon modo per prendersi una pausa dai problemi, ma appena metti il naso fuori quelli ti attanagliano e inizi a capire cosa vuol dire essere un immigrato: non capire bene la lingua, non sapere come muoversi in caso di soprusi, avere difficoltà a trovare un buon posto di lavoro, vedere i locali non fare sacrifici sulle cose come un pasto, desiderare le loro stupende donne (qua tra asiatiche, caucasiche e marsh-up tra etnie ci sono delle gnocche da paura) e sapere che invece te non puoi permetterti di comprare carne se non bacon, neanche cioccolata, mangiare fuori se non da un fastfood orientale o un fottuto hamburger e che se ti va bene puoi imbarcarti un'inglese brutta come la fame o se ti va male puoi essere stuprato da un muratore irlandese ubriaco che ti ha scambiato per la sua ex-girlfriend.

Una goccia di speranza e determinazione l'ho ritrovata oggi allenandomi all'Hide park in uno spot mostratomi  da alcuni ragazzi della scena locale (altro capitolo a parte). Potenziamento serio e condizionamento tosto di gambe, poi iniziare a lavorare su passaggi grossi con focus e determinazione. Non ho chiuso niente di nuovo che non avessi già fatto nell'allenamento precedente (una roba come 4-5 break the jump in un giorno, per i non addetti, passaggi che si ha paura di fare davanti i quali la propria sicurezza vacilla), ma ho lavorato con alta concentrazione e ritmo deciso, giungendo quasi alla meta (per gli addetti running precision da 9-10 piedi su muro da due metri e mezzo, dislivello un altro mezzo dallo stacco e 40 cm per l'atterraggio, ovviamente chiuso sempre in running-cat). Ma un allenamento del genere ti aiuta sempre a ricordarti quali sono i tuoi limiti e su cosa devi lavorare, che è attraverso la difficoltà che si giunge alla forza vera, non quella posticcia ed ostentata dettata dall'ego. Ciò è un aiuto in più sul quale fare riferimento per come dovrò agire i prossimi giorni.

Vedremo come va, intanto dopo una serata passata a lavare e stirare (brutti stronzi, 8 dollari anche per la lavasciuga), farmi da mangiare e rilavare, ora partecipo ad un drinking-game qua all'ostello con del mediocre vino australiano. Una cosa è sicura, in questo paese ci lascerò il fegato.