lunedì 28 dicembre 2020

Perchè NON sei un "Parkour Athlete"

Miti & leggende dal passato: cos'è il Praticante? Questa figura con cui i pionieri della disciplina si identificavano e che ormai viene rilegata ai libri di storia del Parkour, assieme ad altri termini sempre più inconsueti (come ad esempio "traceur"), è ancora ad oggi il modo con cui una buona fetta delle persone con le gambe in pasta, in quest'area di movimento, definisce sé stessa.

Atleta, Artista, Freerunner, passando per il dubbioso "parkourer" sono i vocaboli oggi sempre più comuni.  Ecco invece perché dal mio punto di vista "Praticante" continua ad essere non solo il termine più sobrio per definire gli individui di questa comunità in movimento, ma effettivamente il modo più corretto per definire la stragrande maggioranza di queste persone!

"Il Praticante è un esploratore. Si crede un atleta, ma spesso è troppo cazzone per esserlo. È un buffone ma sa cosa vuol dire la serietà. Sa curarsi (male) con le sue mani. Ma soprattutto è guidato da una fortissima curiosità e voglia di vedere oltre il proprio naso e i propri limiti. E odia i programmi."

Questa la descrizione poetica che davo del praticante nel mio precedente post. Poter dire che questo è l'assoluto archetipo di ogni praticante che ho incontrato in questi anni sarebbe ingiusto.

Le persone sono diverse e si approcciano ad una determinata cosa relativamente "aperta" portando la propria personalità, la propria esperienza e diverse risorse, che possono risultare in ampio contrasto con questa definizione. Tuttavia sono abbastanza sicuro che chiunque abbia vissuto il Parkour - o una qualsiasi disciplina - da pioniere possa riconoscersi in almeno uno o più di questi aspetti e che alla radice di tutti ci sia almeno un barlume di voglia di esplorare.

Perché all'inizio di questa avventura c'è stata un'occasione di scoperta. Ed una grandissima ignoranza di base. E da questa la possibilità di indagare una determinata cosa anche fraintendendola, ma rendendola personale, unica, ricca di immaginazione ed idee.
Per non parlare delle esperienze, quali il dormire su un tetto con un sacco a pelo, l'allenarsi con persone dall'altra parte del mondo o lo sperimentare sfide concettuali.

Ed è questo che sta a capo della grandissima diversità che possiamo ammirare nel Parkour e che, al di là dei dub full e dei side prec (o di un qualsiasi movimento x di moda per un determinato periodo), continua a resistere alla faccia di chi vuole standardizzare questa disciplina, rendendola un set di movimenti stereotipati valutabili a punteggi.

Quindi chi fa Parkour non può semplicemente essere definito un Artista?

Dal mio punto di vista no. Non del tutto almeno.

Ora, non voglio entrare nell'ancor più intricato mondo di cos'è Arte e cosa non lo è e mi appoggerò alla vaga definizione di "espressione di sè", mediante uno strumento-corpo.
Sebbene non neghi che il fattore espressivo sia qualcosa che caratterizzi la disciplina, specie nelle sue forme più estetiche, credo ci sia qualcosa di più forte della volontà di esprimere sé stessi. Ad esempio qualcosa che (almeno all'origine) pende molto di più verso il mondo generale dello Sport e dell'Atleta:

Il gioco.

Hai perso.

Che sia con i propri fra, homies o buddies, la voglia di giocare anche a qualcosa che diventa molto serio come una sfida, assieme a quella del superare i propri limiti, è quello che avvicina molto di più il praticante di parkour/add/freerun al mondo dell'atleta - dilettante per lo meno -.

Dunque se chi pratica queste discipline è un po' atleta ed un po' artista (ma sostanzialmente nessuno dei due), ed è un qualcuno che ha imparato principalmente su di sé, senza "scienza" sulle spalle ma con la ricerca e l'esplorazione personale, allora Praticante è proprio la parola che fa al caso giusto.

Ma nel dettaglio cos'è un praticante? Lascio a voi le conclusioni con il seguente diagramma di Venn.

Premetto che questa è un'interpretazione personale dei vari elementi alla radice di ogni ambito. Non una verità assoluta. Perché (fortunatamente) non è tutto bianco o nero, e un atleta può imparare ad improvvisare (vedi gli sport di situazione) e un artista può essere fortemente legato ad un obbiettivo o meglio ancora basarsi sul gioco. Per non parlare poi di tutti gli sport di combattimento, un mondo parallelo ancor più grande e complesso.

Allo stesso tempo facendo un'approssimazione di categorie molto grandi e prendendo a riferimento le discipline nei dintorni del Parkour, è improbabile che molti di questi concetti non emergano in quella posizione.



I punti di incontro sono da intendere propri di quelle categorie nate dalla fusione tra le diverse macroaree


Infine:

È così importante dover dare un nome a cosa si è e a cosa si fa?

No
.

Però nel qual momento lo si dà è importante capire qual’è la propria identità. Per onestà verso gli altri o verso sé stessi. Per preservare una cultura giovane che già si perde via lavata da ventimila novità, sempre più frammentaria, inconsistente e colonizzabile. O semplicemente per avere un punto di riferimento chiaro nel qual momento ci si voglia distaccare da quell'identità per muoversi verso un'altra direzione.



tl;dr: Definirsi "parkour athlete" spesso non è del tutto onesto/corretto ed è relativamente importante al fine di preservare un'identità comune nel parkour.



*che a sua volta conta numerosi nomi e sfumature.


sabato 19 dicembre 2020

MA TU QUANTO TI ALLENI?

Quella del titolo è una domanda che spesso sento rivolgere a chiunque pratichi una disciplina/sport al di fuori dell'ambito hobbistico, me compreso. Mia intenzione non è di certo di rispondere a questa domanda, bensì di prendere l'argomento alla larga per parlare della mia esperienza personale nel Parkour / Art du Déplacement / Movimento e di come il mio approccio sia evoluto lungo gli anni, magari fornendo qualche spunto succoso per migliorare il VOSTRO, di allenamento.

Come su tutto (o quasi) più tempo dedichiamo ad una determinata cosa, più dovremmo maturare esperienza ed abilità in tale campo specifico. Verità è che se in una settimana maturiamo un cumulo di ore facendo tale cosa, quelle ore sono subordinate a così tante variabili che non è detto il risultato sia pari per due o più soggetti di pari abilità e potenziale di partenza, che si esercitano nella stessa cosa.

Per chi come me è cresciuto nel dogma del "fare tanto", che unisce parte del mindset determinato - tipico di certe pratiche - all'aver scelto questa vita - e del dover quindi giustificare a me stesso e alla mia cultura d'origine di essere un mulo da soma -, l'aspetto quantitativo, di quanto tempo si dedica ad una certa cosa e di quanta fatica si fa in una certa direzione, è sempre stato uno dei pilastri di riferimento e delle vette alle quali ambire.

Se l'aver dedicato una notevole quantità di tempo a ciò che mi appassiona è stata effettivamente la cosa che mi ha permesso di migliorare visibilmente su tanti aspetti e coltivare tanti obbiettivi contestuali, la mia esperienza attuale mi dice che quelle ore non sempre sono state utili alla mia crescita.

Ora per togliere mistero di quali elementi influenzino la fruttuosità di queste ore, ecco un breve elenco delle variabili principali. Che non descriverò in dettaglio ma alle quali abbinerò delle domande-chiave:

- DENSITÀ (Quante cose hai fatto in quell'ora di allenamento? Quanto sei stato concentrato? Quanto hai cazzeggiato?)

- FREQUENZA (Quanto spesso ti sei allenato? Come hai distribuito quelle ore? In quali fasce hai ripetuto un determinato gesto?)

- QUALITÀ (Quanta attenzione hai dato al gesto eseguito? Il metodo che hai utilizzato è stato utile a migliorare? Sei arrivato al risultato desiderato?)

- RECUPERO (Quanto eri stanco -prima, durante, alla fine- di in un determinato lavoro? Come hai dormito? Cosa hai mangiato e quanto?)

Se vi allenate seriamente, prima o poi vi porrete queste domande, e vi sarà facile identificare le variabili di cui sopra ed intuirne la loro influenza.

Ora, prima che volino ceffoni dai tecnici del settore e mi si accusi (giustamente) di disonestà intellettuale, addentrandomi in terminologie troppo tecniche che poco si addicono alla mia formazione da "nerd", ricchissima di lacune di base (non sono un scienze motorie né ho certificazioni specifiche che non riguardino il solo insegnamento dilettantistico), voglio: 1 precisare che non sto parlando in maniera specifica di allenamento della forza o bodybuilding; 2 prendere l'argomento dal punto di vista per me più onesto, ossia quello del "Praticante".

Cos'è il Praticante?

"Il Praticante è un esploratore. Si crede un atleta, ma spesso è troppo cazzone per esserlo. È un buffone ma sa cosa vuol dire la serietà. Sa curarsi (male) con le sue mani. Ma soprattutto è guidato da una fortissima curiosità e voglia di vedere oltre il proprio naso e i propri limiti. E odia i programmi."

Quello del praticante è un argomento che tratterò a fondo con un post dedicato, evidenziando in special modo le differenze con l'atleta e il perché questa parola è così forte nell'identità di chi ha vissuto il Parkour in una certa epoca.

In attesa che ciò avvenga, quello che dovete sapere di importante di questa figura - nella quale identifico me e molti altri compari - è la dedizione ad una certa arte o per l'appunto "pratica" che mal si presta ad una pianificazione maniacale.
Se da un lato c'è il desiderio di crescere, esplorare, di superare i propri limiti e l'effettiva volontà, ed impegno, nel conseguire certi obbiettivi, dall'altro c'è la disorganizzazione, la noia verso percorsi e metodi prestabiliti, rodati (e quasi sicuramente funzionanti), la tendenziale difficoltà ed indisciplina nell'entrare in routine meccaniche.

Nella mia esperienza entrare in modalità di allenamento estremamente ripetitive è stato faticoso sin dall'inizio; ogni fuga momentanea una salvezza. Allo stesso tempo si è rivelato sia una medicina non troppo amara per sistemare forti debolezze, sia uno strumento concreto per ottenere risultati tangibili nel mio allenamento (e nella vita). E che soprattutto ha rinforzato l'idea sempre di grande valore del:

"Per poter fare ciò che ti piace prima o poi devi fare anche ciò che non ti piace"

Ottenuti certi risultati è tornato però un problema evidente, legato all'essere un Praticante:

Quello di essere un cazzone.


Che preferisce fare challenge di volumi atroci di ripetizioni un giorno al mese, piuttosto che la stessa cosa 10 ripetizioni al giorno ogni giorno*. Che ricerca ogni volta sempre un'esperienza nuova anziché formulare strategie per diventare più esperto. E che puntualmente ripiomba nei limiti di un qualcosa, che oltre una certa soglia e al presentarsi di certe problematiche (infortuni, debolezze, stallo), di strategia ne necessita eccome . Tutto ciò che invece appartiene ad un ATLETA.

 *Ok, so che non tutti i praticanti si riconosceranno in questo, ma oggettivamente, specie tra i pionieri della propria città/regione/nazione quanto non è verosimile questa descrizione?

Su questa base, dopo aver sperimentato per alcuni anni periodi specifici di allenamento della forza, assemblando programmi con le mie conoscenze più o meno basilari, sbagliando e correggendo di volta in volta, ottenendo grossi risultati ma soprattutto FATICANDO COME UN MULO, sono arrivato ad un punto in cui:

- a) mi è più facile sottostare a delle routine
- b) non sopporto più di lavorare in maniera troppo serrata con un programma

O meglio. Non mi piace dedicarci più quella quantità di tempo ed energie assurda che ci dedicavo per quei 4 mesi all'anno, in cui quasi non riuscivo ad uscire a saltare (con conseguenti perdite da quel lato). Non mi piace l'essere vincolato in maniera così stretta ad uno schema con tot fasi e tot obiettivi. E mi piace ancora meno l'idea di diluire quel lavoro di 4 mesi nell'arco di 12.

Però mi è necessario.

Da una parte quindi me la sono messa via ed alcune cose sono diventate elementi fissi (specie mobilità, verticali e riabilitazioni varie), dall'altra invece sono sempre più orientato verso un approccio ibrido, che unisca i diversi aspetti vitali della mia pratica.

Ora prima di spiegare in dettaglio cosa intendo con ibrido, vi introduco un'altra variabile che ho tralasciato dalle precedenti:

- FUORI COMFORT

(Hai superato di un po' i tuoi limiti? Ti sei esposto ad una difficoltà maggiore? Hai provato paura?)

Ora:

    cos'è questo approccio ibrido?

Di certo NON è uno strumento che può sostituire la completezza e la qualità di risultati di un buon programma d'allenamento strutturato su di voi.
Piuttosto una modalità sia per avvicinare chi è allergico al concetto di routine - e necessita di migliorare in un qualche aspetto specifico -, sia per coloro che hanno già dimestichezza ed esperienza con allenamenti programmati ma che vogliono limitare al minimo questi, mirando piuttosto a mantenere un corpo ed abilità sempre pronti per l'avventura.

In come si differenzia dal "allenamento alla cazzo dove faccio le solite 2-3 cose"?

Implementando il concetto di fuori comfort. Che richiede quella ripetizione in più (o quella un po' più difficile, paurosa od intensa che sia) ad ogni sessione di allenamento. Stabilendo un numero (ragionevole) di ripetizioni settimanali di quella tecnica che abbiamo stabilito di lavorare per un dato periodo.

Nutrire questo approccio richiede soprattutto onestà. Come qualsiasi tipo di allenamento le cose da allenare devono essere ragionevolmente proporzionate al tempo che abbiamo a disposizione e al nostro stato di salute, se non vogliamo trovarci con un pugno di mosche in mano. Ancor di più l'intensità (l'entità dei carichi) con la quale lavoriamo deve essere ben adatta alle nostre capacità e a questa modalità di lavoro per evitare tragici epiloghi.


I tragici epiloghi?

Per questa sua natura è una modalità che non si presta ad obbiettivi specifici, bensì ad obbiettivi generici. Come può essere pulire un movimento acrobatico. O mantenere un generale livello di forza negli arti inferiori. O guadagnare una maggiore stabilità di core.

Serve quindi eliminare l'idea di ASPETTATIVA legata ad un obbiettivo, quale può essere di tirare su un quantitativo specifico di pesi o di giungere ad una certa skill o variabile di tecnica particolarmente complessa.

L'unico vero obbiettivo che dobbiamo portarci a casa è quello di aver svolto il nostro dovere ogni settimana. Sembra banale ma l'idea di avere un obbiettivo fisso da seguire anche solo una volta a settimana e da evolvere in un arco di tempo più lungo, non è affatto scontata per chi non si è mai allenato in autonomia stabilendo una routine o con un programma.

DA DOVE INIZIO?

Dal tuo livello d'esperienza e di fitness ATTUALE.

Sei fuori forma e non hai una routine? Trovati qualcosa che puoi fare con semplicità (dei piegamenti, dei volteggi, delle tenute isometriche), stabilisci un numero ragionevole** di ripetizioni, le volte in cui ripeterlo (o il tempo che vuoi dedicarci) e trova il modo di renderlo più difficile ad ogni sessione, senza dimenticare un lavoro a metà una tantum.

Sei esperto ma infortunato? Dai priorità alle tue debolezze e struttura il tuo approccio ibrido sulla riabilitazione.

Sei un PRO ma non hai più il tempo di prima? Trova un obbiettivo giusto che dia il massimo guadagno con il minor dispendio possibile di tempo. Se vuoi arrivare ad 1 min. di verticale da 0 magari no, perlomeno non da solo.

Concludo con una considerazione finale, che è la domanda che talvolta si abbina a quella del titolo. A CHE PRO? Ricordatevi che una disciplina è soprattutto uno strumento per formarvi, farvi superare i vostri limiti individuali, quali possono essere la pigrizia, l'insoddisfazione e la scarsa salute motoria.

Non serve che diventiamo tutti degli eroi, degli acrobati d'alto livello o dei pifferai magici. Serve che ognuno metta qualcosa in più sul piatto dell'impegno per stare meglio con sé stessi ed il mondo.



 
**ragionevole sta ad indicare un numero che non sia follemente insostenibile nel lungo termine, rispetto alla vostra preparazione e allo stesso tempo così basso e diluito da essere inutile

martedì 8 dicembre 2020

SULLE COMPETIZIONI (ANCORA?!)

Ritorno il più brevemente possibile sull'argomento, dopo averne dibattuto in passato (non sul blog ma su social). In questi giorni si sono svolti i campionati di "Parkour" FGI Rimini, che hanno visto partecipazione di alcuni atleti in vista del panorama italiano (più altri che sinceramente non conosco), la pubblicazione di alcuni articoli di stampa specialistica, un discreto clamore mediatico sui social da parte della comunità di pk/fr/add che dibatte giustamente sull'impatto che avrà la cosa in questione.

Ora prima di scrivere il mio pensiero e per massima trasparenza preciso che:

- faccio attività di corso con società sportive della ginnastica in qualità di collaboratore e coach di parkour;
- di cui una affiliata FGI e con una forte componente agonistica
- non formo atleti per competizioni e ad ora non mi è stato chiesto nulla in tale direzione
e (cosa che mi attirerà probabili future antipatie da parte di amici di lunga data):
- allo stato attuale NON sono totalmente sfavorevole alle competizione nel parkour

Fatte queste precisazioni ed evitando ulteriori preamboli riguardo il decorso del parkour mondiale all'interno della FIG che è un processo ormai avviato da qualche annetto, voglio specificare che l'impellenza di questo post nasce per dipanare un mio commento su facebook, ovvero il seguente:


Alla luce dei punti citati sopra credo sia facile tacciarmi di incoerenza ma cercherò sempre per punti (per cercare maggiore sintesi) di specificare tutto il mio pensiero a riguardo:

- NON SONO DEL TUTTO CONTRARIO ALLA COMPETIZIONE NEL PARKOUR. Sono contrario come lo ero in passato al doversi trovare a promuovere la disciplina attraverso un filtro competitivo in cui debba essere spiegato che il parkour può ANCHE NON ESSERE orientato all'agonismo. Questa cosa è una differenza che mi turba non poco, in più una disonestà nei confronti di me stesso e di tutte quelle persone che si sono avvicinate a questa disciplina(e) (comprese quelle a cui insegno) per la sua natura LIBERA senza voler essere inquadrate all'interno di un sistema performativo stereotipato la cui massima ambizione è classificarsi attraverso un sistema di punteggi.

- con tutto il rispetto che nutro nei confronti delle personalità della ginnastica con cui collaboro SONO CONTRARIO ALLE COMPETIZIONI FIG/FGI o gestite da qualsiasi federazione non figlia del nostro mondo (lasciando stare WFPF/IPF che sono figlie di imprenditoria pubblicitaria). Ritengo che se proprio ci debba essere un format competitivo quello debba nascere con canoni e punteggi stabiliti dalla comunità attiva, non da personaggi orbitanti per puro interesse privato.

- SONO CONTRARIO AL TIPO DI DIFFUSIONE MEDIATICA "POSITIVA" che ne deriva. L'idea che questa disciplina di scapestrati mal vestiti che saltano sui muri ora finalmente puliti dalla FIG sia conformata entro i parametri del socialmente accettabile è semplicemente ributtante. Come se l'abito facesse il monaco e non ci fossero persone "scapestrate" e mal vestite che dall'alba di questa disciplina lottano per il riconoscimento di ciò che facciamo in chiave positiva, di miglioramento individuale e sociale.
Qualcuno può dire che entrambe le realtà possono coesistere, io ci vedo una PERICOLOSA deriva verso una scissione di praticanti seri e per bene che fanno i contest in ambiente sicuro ed omologato e di sciroccati che saltano su cose senza averne l'autorità. Uno sputo in faccia a chi da anni lavora per un riconoscimento COMPLETO. Confido che la nostra realtà sia sempre più forte ed attraente di questa, ma ricordiamoci che le regole attualmente le fa la FGI/FIG.

- La "PENA" che provo è relativa alla dignità individuale. Di atleti fortissimi, mover straordinari, che si prestano a format di siffatta bruttezza, che snaturano ciò che c'è di bello ed artistico nel mondo del movimento inseguendo un sistema di punteggi stabilito da chi ha un filtro estetico che non combacia con il nostro. Lasciando poi perdere l'aspetto valoriale, del quale non vedo alcuno di questi atleti impegnato a specificare che questo NON è "vero" parkour. Capisco poi che come tutti si cerchi di "portare la pagnotta a casa", specie per chi viene da realtà più difficili e questo non lo critico, ma è veramente questo il prezzo? E questa la soluzione?

Ora che ho dipanato questi punti, il post può essere considerato già concluso. Ecco invece, per chi volesse, le specifiche per chiarire più a fondo.

La mia idea sulle competizioni NON CAMBIA, se mai, attraverso l'osservazione, migliora. Presupponendo che una società evoluta progredisce verso una direzione COLLABORATIVA anziché COMPETITIVA, la realtà dei fatti è che LA COMPETIZIONE È UN FATTORE INSITO NELLA NATURA STESSA, è biologica, umana, istintiva. E come ogni istinto va domato, non represso. Ne va colto il potenziale fortemente formativo e finalizzato correttamente. Negare questo fattore vuol dire negare la volontà stessa di dare continuità a noi stessi come specie.

Io sinceramente vivo come un deficit la mia mancanza di spirito competitivo. Specialmente quando si realizza di non vivere in una società prettamente collaborativa come idealisticamente si vorrebbe. E sinceramente non capisco perché ai ragazzi cui insegno debba essere negata questa esperienza in toto, come fosse il grande male del mondo e non ci fosse nulla di positivo da imparare.

Questo significa che bisogna per forza fare le competizioni di parkour?
NO! Questo significa che la competitività non deve essere trattata in maniera dogmatica e rifiutata, ma bensì integrata, fatta sperimentare in maniera sana, senza negare il RISPETTO per gli altri (visto come deriva negativa della competitività) e che il dialogo con l'"Ego" (il grande demone) debba essere favorito e dipanato anziché bastonato e mal soppresso, come in molti ho visto fare. La medaglia alla quale si deve poter ambire attraverso la competizione è quella dello sviluppo individuale e del proprio benessere psicofisico e questo passa in maniera imprescindibile attraverso un'opera di EDUCAZIONE. Sotto questo PUNTO IMPRESCINDIBILE, in cui si sancisce un limite di cosa può essere STRUMENTO e cosa può essere il FINE anche le competizioni organizzate da una società stessa possono essere utili, anche se non per forza necessarie.

Aggiungo che da come ho potuto osservare, spesso chi rifiuta la competizione parte da:

  • un rifiuto di mettersi in gioco e in confronto con altri per auto-sminuimento e poca fiducia in sé, che si manifesta solitamente nella paura del perdere
  • un'idea tendenzialmente negativa di pericolo incontrollato e di farsi male
  • la mancanza di volontà di omologarsi ad un sistema preconfezionato

Dal mio punto di vista tutte motivazioni SACROSANTE al rifiutare la competizione e qualsiasi tipo di pressione esterna nel fare qualcosa che si valuta intimo e personale. Ma bisogna anche essere certi che:

  1. Non ci stiamo prendendo in giro, rifuggendo da qualsiasi confronto per mancanza di onestà con noi stessi
  2. Non siamo noi ad essere impreparati di fronte ad una sfida impegnativa (come può esserlo quella della competizione)
  3. Non abbiamo qualcosa di irrisolto con il nostro "Ego" che ci fa gridare al lupo ogni volta che vediamo qualcosa che nel nostro mondo ideale mette in crisi l'auto-repressione che applichiamo

Con questa base fare sperimentare la competizione in maniera mirata ad ogni livello e stimolarne una visione critica senza dogmi credo possa non essere più un paradosso. Ad esempio attraverso il gioco. Che se ben strutturato, può anche fare sperimentare la vittoria a tutti.

Infine, riguardo alla "pagnotta da portare a casa": riconosco che alcune persone vivano in contesti più difficili e rarefatti dal punto di vista lavorativo, ma HEY. Ho 32 anni, ho scelto questa vita per questo momento e vivo nelle stesse difficoltà. Vivo autonomo, ho spese di affitto, cibo, utenze e trasporti e non chiedo soldi alla mia famiglia. Vivo di ristrettezze ed instabilità (mai come in questo momento), soppesati dalla bellezza di poter continuare a praticare movimento ogni giorno e lo faccio con dignità insegnando ciò che amo. So che non tutti sono inclini (per fortuna) all'insegnamento. Conosco la paura della mancanza di soldi, conosco le pressioni e le perplessità della famiglia, ma conosco anche la capacità di fare qualcosa di magari sgradevole ma onesto per potersi sostentare momentaneamente e continuare a muoversi. Conosco anche chi ha a malapena 20 anni e cerca di fare il botto della vita senza mettersi in gioco su nessun altro aspetto personale. E conosco anche chi da questa idea è stato tritato.

Per (finalmente) concludere, alcune precisazioni del caso:

- Volevo esprimermi su Antonio Bosso, che da anni seguo ed ammiro per la grande abilità nel muoversi e il lavoro che fa nel sociale in una realtà cruda come quella di Napoli e che mi ha fatto digerire anche i format più indigesti nell'ottica di questa sua missione. Non lo farò per i sentimenti contrastanti che la cosa mi genera.

- Non ho parlato dell'aspetto limitante in termini di movimento STEREOTIPATO nelle competizioni e conseguente difficoltà di stabilire dei canoni veri e propri per i punteggi in un mondo motoriamente aperto come questo. Per non parlare poi dell'aspetto MENTALE che è uno dei punti cardini della disciplina.

- Il mio ruolo rimane invariato. Continuerò a non essere formatore di atleti agonisti, anche se non negherò loro la possibilità di competere durante le lezioni. Non parteciperò alla creazione di alternative ai format della FGI perché non è nelle mie competenze, anche se sosterrò più qualcosa che viene dalla comunità che da fuori. I miei allievi saranno liberi di fare le loro esperienze in ambito, semplicemente non avranno il mio supporto in gara, ma neanche la chiusura di porte in faccia. Magari parteciperò di persona a qualche competizione, chissà.