lunedì 5 maggio 2014

Ci si dispera per la vetta ma non si guarda la strada percorsa

Mi ritrovo a rispolverare il mio vecchio blog, abbandonato dagli ultimi mesi d'Australia per buttare giù qualche pensiero di getto a riguardo del percorso iniziato oramai quasi 5 anni fa.
Chi si allena con me e mi conosce sa che il responso medico ai miei opprimenti problemi alla schiena consolidatisi dopo la brutta caduta di quasi due anni fa in Tasmania è inequivocabile: ernia lombare L5-S1, le due vertebre alla base della colonna vertebrale. Gli 8-9 mesi di fermo dall'allenamento (ma non da lavori pesanti e situazioni scomode) hanno nutrito giusto quegli effetti che mi hanno permesso di ridimensionare se non di far scomparire quasi del tutto l'infiammazione al nervo sciatico, ma ben poco hanno aiutato alle frequenti e periodiche infiammazioni ai lombari alle quali mi sono dovuto abituare.

È un po' un calvario fisico e psicologico il dovermi adattare a questa situazione, frutto di un eccesso di confidenza nell'euforia del primo mese australiano... Nel non sapere come starò tra un paio d'anni o quanto questa condizione inciderà sulla mia salute in un futuro più lontano, a causa del naturale decadimento fisico, non nascondo di ritenere non del tutto infondate le preoccupazioni di chi mi ha visto riapprocciarmi a quello sport che mi ha trasformato da un aspirante atleta ad un infortunato cronico spaventato dal proprio futuro.
Quale proverbio è dunque vero tra "il lupo perde il pelo ma non il vizio" e "chi si scotta impara a non giocare con il fuoco"? Dalla mia esperienza attuale direi che sono giusti entrambi.


Per quanto vero, non voglio nascondermi dietro il dito che il mio infortunio sia abbastanza comune e capiti anche solo sollevando un vaso, non trattandosi del mio caso. Posso però constatare con sicurezza che una situazione pregressa di lavori pesanti alternati a vita sedentaria e tabagismo, e all'improvviso la folgorazione per il parkour e lo spingere costantemente senza riposo per il sentirsi sempre indietro rispetto ad un'ipotetica tabella di marcia, lo spingere perché ne avevo bisogno - anche al costo di non essere altrettanto impegnato sul lavoro o nei rapporti affettivi -, mi abbia portato a quella situazione, anticipata da vari attacchi al nervo sciatico e concretizzatasi con un movimento sbagliato su di un'area apparentemente sicura che invece mi ha lasciato al suolo, per non so quanto tempo, agonizzante e spaventato.

Un affronto a me stesso, quello che si ripeteva che ci vuole preparazione per  le cose, che il momento in cui sottovaluti l'ostacolo è quello in cui ti fai male, un percorso forse obbligato per molti che decidono di affrontare una disciplina impegnativa a livello fisico e mentale.
Ma non è del dolore, né del compiangersi che voglio parlare, ma di come si cerca di trarre frutti da una situazione potenzialmente distruttiva, per adattarsi e migliorare. Come dicevo i proverbi citati sono entrambi verosimili, dai vari punti di vista con cui li si affronta. Il parkour è uno sport potenzialmente pericoloso e logorante, di fatto lo sono tutte le discipline sportive praticate a vari livelli d'intensità, ma attualmente non abbiamo ancora una reale conoscenza di quali effetti questa produca nei decenni, essendo che i praticanti più anziani sono ancora anagraficamente giovani e relativamente prestanti... È anche vero, dall'altro lato, che le metodologie con cui si affronta la pratica sono in costante evoluzione, gradualmente più specifiche e condivise ad una fascia sempre più ampia di atleti. Ciò non toglie che il vizio del praticare può portarti a ripetere errori, magari incalcolabili, dettati dalla fatalità, più frequentemente dettati da una mancanza vera e propria della conoscenza dei propri limiti, da una sovrastima delle proprie possibilità o da una "banale" mancanza di concentrazione.

Conscio di queste cose -qualche infortunio leggero e qualche altro un po' più fastidioso non sono mancati dal momento in cui ho ripreso ad allenarmi- sono qua di nuovo a giocare col fuoco, stando molto più attento di prima a non scottarmi. Ho già letto un articolo, non mi ricordo dove, che spiegava come gli infortuni siano una parte del percorso di un atleta, effettivo od aspirante che sia, di come questi possano cambiare la percezione del proprio allenamento e attivare meccanismi di adattamento per sopperire a quello che manca.
Con la schiena il discorso è un po' più complesso, si infiamma più o meno a caso, con i muscle-up, con le flessioni, con i salti di precisione, con gli squat, stando seduto, stando a letto troppo a lungo, stando i piedi troppo a lungo. Questa è già - per assurdo - una prerogativa per la quale ritornare ad immergersi in un qualcosa che manca visceralmente. Poi viene la consapevolezza che l'inattività può solo peggiorare la situazione. Ma più di tutto viene quel bisogno, che non è semplicemente quello di giocare ma bensì quello di sentirsi forti, di avere fiducia -una fiducia reale- delle proprie capacità.
Il sapere che è un momento difficile -per me, per tanti, vicini e lontani, per la crisi, per il mondo in cui ci troviamo e le varie realtà della vita- e che in questo scenario non posso permettermi di sprofondare ancora nelle debolezze, non tanto per me stesso ma anche per chi ho vicino


È quel bisogno che da anni mi spinge ad allenarmi da solo nel piccolo paese-dormitorio di periferia in cui vivo, sotto la curiosità a volte bonaria a volte ostile dei passanti, tra quelli che mi indicano nello stupore quando faccio qualcosa che pare spettacolare o gli altri che pensano ad un nuovo scemo/pazzo del villaggio quando salto sui muri o attraverso il parcheggio del cimitero in quadrupedia; ed è sempre lo stesso che mi ha riportato con convinzione sulla vecchia strada, nonostante la paura -non infondata?- che sto aggiungendo danno al danno, che sto smantellando di mia propria volontà il mio corpo inseguendo dei risultati fisici e mentali che a volte sembrano scoppiare come bolle di sapone davanti alla faccia: tanto bruciore negli occhi e vuoto dove prima c'era un'idea che fluttuava. E mi siedo a domandarmi cosa ho raggiunto in questi anni, come mai mi sembri di essere ancora al punto di partenza.


Ma di strada ne ho fatta.

La percezione di ciò che faccio è effettivamente cambiata e grazie allo spirito di adattamento vedo una nuova risorsa nel mio infortunio. La sensibilità fisica, il dolore, sono un nuovo ago della bilancia per capire quanto pesante sto andando, e sono un limite stesso -a volte svilente- di quelle che sono le mie capacità, la coscienza che certi salti li ho contati e che certi massimali difficilmente li recupererò.
Sono combattuto tra la fiducia del vedermi comunque in miglioramento graduale e soddisfacente -attraverso un impegno costante, un tecnicismo più curato (nei miei limiti propriocettivi) e un lavoro più razionale e mirato a limitare i danni che ho-  e la consapevolezza di aver messo sulla bilancia quella che potrebbe essere la mia salute presente e futura anziché rassegnarmi alla realtà, curarmi a fondo per quanto possibile e concentrarmi su altro.

Forse sarà così tra qualche anno, forse ho bisogno di realizzare che il parkour è un sogno svanito dopo aver lasciato profonde cicatrici e che quello che avevo da prendere da questa disciplina l'ho già preso, ma la verità è che in questo momento sono ancora nella corsa e che ciò che pratico continua ad essere il miraggio di ciò che voglio diventare, dello sbarazzarmi delle mie paure ed insicurezze, del voler imporre la volontà che imprimo in un salto a tutti gli aspetti della vita, del volermi sentire soddisfatto del mio impegno, -perché la soddisfazione è una delle chiavi per poter stare con se stessi e in società a testa alta-, del poter trasmettere la mia stessa dedizione ad altri e poterla traslare nelle sfide che un giovane investito dagli eventi della vita deve affrontare.

È con affetto e preoccupazione che guardo i nuovi praticanti che mi affiancano, in alcuni di loro scorgo il mio stesso bisogno di dare una svolta alla propria vita, di smettere di essere passivi agli eventi e del maturare sufficiente confidenza e sicurezza nel movimento per tradurlo poi nella direzione in cui si vuole rivolgere i propri passi.

Vedo me che sono cresciuto in questi ultimi anni, che sono diventato adulto, forse per il dolore, forse per le esperienze che ho fatto o perché è qualcosa di fisiologico, ma mi piace credere che in grande parte questo è successo perché mi sono buttato in un gioco da bambini che mi sfida a crescere costantemente. Questo è anche ciò che vedo in molti altri compagni, ciò che mi arreca dispiacere in coloro in cui non vedo questo bisogno - e che a mio parere ne trarrebbero grande vantaggio - e per opposto, ciò che mi spaventa negli altri in cui vedo troppo questa necessità: questa smania ancora confusa, rabbiosa, quasi isterica, di allenarsi, progredire, a ritmi pressanti come avevo io. La paura non è solo quella che possano cadere in infortuni debilitanti o in errori vari del percorso, ma che nel colmo del loro entusiasmo possano ingabbiarsi in una visione distorta in cui continuano a vedere i frutti a cui ambiscono ancora distanti, mentre i loro passi si sono bruciati precocemente lasciandoli in un vicolo cieco, tutta la loro spinta isterica vana per l'incapacità di capire quanto hai bisogno di una cosa e quanta ne puoi prendere in quel dato momento, quanto i confronti con gli altri possano essere spesso fuorvianti, quanto serva lasciare tempo al tempo per poter abituare il proprio corpo a fare qualcosa al quale non è adattato e realizzare quando fermarsi a leccare le proprie ferite, gioendo anche delle piccole cose raggiunte coi propri sforzi.

È quindi con un augurio a me stesso ma soprattutto a tutti i vecchi e nuovi compagni di gioco che chiudo questa riflessione, sperando che per alcuni possa essere illuminante, non tanto come monito ma come una visione più chiara di ciò che facciamo e del perché lo facciamo, una consapevolezza che per la realizzazione di un sogno la dedizione può essere quella di una vita e che una vita la si può bruciare inseguendo un sogno nel modo sbagliato.

"Lei è all'orizzonte. [...] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare."
- Eduardo Galeano