mercoledì 1 settembre 2021

Obiettivi, Resilienza ed altre cose

 

The Emperor (An elegy for power and Lust) © Ravi Semenzato

Lungo questo intricato viaggio che è per me il Parkour, periodicamente mi fermo a indagare su cosa ho maturato nel corso di questi anni. E in particolar modo su quanto, di quel bagaglio che mi porto dietro, sia frutto, evidente e tangibile, di un certo modo di praticare e di intendere la vita. Non piuttosto una storia che racconto a me stesso, la quale sostanza è della stessa materia inconsistente di cui son fatti i sogni.

Questo è appunto uno di quei periodi, che mi sta mettendo in discussione su ciò che sto facendo della mia vita. Che inoltre, un po' forzatamente, mi ha fatto appendere la pratica al chiodo*, instillandomi da ciò il dubbio dell'essere stato veramente in grado di incorporare alcune attitudini e concetti fondamentali del Parkour, se non dello sport in generale.

Una domanda su tutte, emersa prepotente da questo rimestamento di perplessità, è stata:

 

Sono davvero resiliente?

Ho visto che darsi una risposta è facile, se si appartiene a una delle seguenti tipologie di persona:

- Quella sfiduciata delle proprie capacità, contraddistinta da una bassa considerazione di sé, risponderà sicuramente di no;

- Quella in possesso di livelli medio-alti d'autostima, dalle narrative interne orientate a un vivere funzionalmente positivi e sicuri delle proprie facoltà, risponderà con decisione di si.

So per certo d'appartenere decisamente più alla prima categoria che alla seconda, pur essendo, a tratti, un buon crossover tra le due.

Tuttavia, nel tempo ho realizzato che nessuna di queste due possibilità corrisponde a un quantomeno vago ideale di “verità”, quanto più alle continue piccole o grandi bugie su noi stessi che, a noi stessi, quotidianamente raccontiamo.

Arrecandoci in un modo o nell'altro una qualche forma di sofferenza: sia questa nel perpetrare una visione negativa e sminuente del nostro sé, sia quella conseguente a quando quelle illusioni auto-prodotte, con le quali ci sovrastimiamo, crollano tragicamente nel momento in cui la vita le mette a dura prova.

Da qui si possono formulare numerose ipotesi sul fatto che vivere più affini al secondo esempio, avendo accortezza di stare lontano da tutte quelle situazioni che ci possono mettere in crisi, possiede verosimilmente dei risvolti più favorevoli, all'esistere in maniera serena e funzionale a sé stessi.

Avendo però poche competenze “tecniche” in materia, valutando questa inclinazione come qualcosa di più o meno innato e poco “sceglibile”, e soprattutto avendo scelto io stesso, nella vita, di dedicarmi al Parkour / Art Du Déplacement con una certa attitudine (e da qui di pormi periodicamente sotto test), capirete bene perché non andrò oltre nel sondare questa possibilità.


Resilienza come “skill” a livelli

Cosa rispondo a me stesso, dunque, alla domanda: “sono resiliente”?

Si.

Ma cosa alla domanda: “sono totalmente resiliente”?

No.

L'idea attuale che vaga per la mia mente, è quella di non aver acquisito resilienza come un'abilità assoluta grazie a una certa soglia d'esposizione al Parkour. Ma che sia piuttosto un contenitore: pieno in una certa misura, che il tempo e degli scossoni troppo forti possono svuotare, richiedendo perciò costanti rabbocchi. Costituiti dal nostro periodico affrontare e riprenderci da ciò che è causa di malessere e abbattimento nella nostra vita.

Altra analogia che mi piace molto è anche quella di una spirale ascendente (quindi, per opposto, anche discendente), che ci orienta verso un estremo o l'altro di una data abilità, ponendoci così ad alcuni livelli “superiori” o “inferiori” della stessa.

Con questa immagine in mente so dunque di aver maturato un determinato livello di resilienza, nella sua capacità complessiva. Che mi permette di vivere in una misura funzionale e atta all'affrontare, in un certo lasso di tempo, un certo quantitativo e una certa intensità** di “schiaffoni della vita”.

So però, che quella resilienza non è tale da farmi affrontare veloce e incolume certe cadute, né situazioni instabili particolarmente gravose.

Mi verrebbe da speculare oltre e domandarmi se in quella situazione estrema descritta in “Se questo è un uomo”, che finalmente ho letto, la mia innata base di resilienza (quella indipendente dagli sforzi individuali coscienti) mi farebbe appartenere alla categoria dei “salvati” o a quella dei “sommersi”.

Fortunatamente questo è un esempio limite, il cui esito si può conoscere probabilmente solo con l'esperienza diretta. Che credo (e spero) non avrò mai modo di sperimentare in vita mia, anche in maniera vagamente analoga.


Resilienza negli obiettivi di Parkour (e non solo)

Tralasciando il piano metafisico, rieccomi sul piano pratico che è quello della pratica sportiva.

La resilienza non gioca un ruolo determinante solo sul fronte del “ripigliarsi” dopo un infortunio, ma è un elemento che definisce l'attaccamento a degli obiettivi di una certa entità, specie quelli sul lungo termine, mutando nella sua forma evoluta che è perseveranza.

Ad alcuni sicuramente potrà sembrare banale, ma il fatto di identificare degli obiettivi da perseguire, per poi perderli di vista a causa di distrazioni, avvenimenti avversi (quali infortuni sicuramente, ma anche imprevisti di varia natura), mancanza di energia, tempo etc. è sintomatico di una delle seguenti condizioni:

- di scarsa resilienza, nel saper fronteggiare ciò che ci ostacola nel conseguimento di ciò che ricerchiamo;

- di mancanza di un sincero e fervido attaccamento a quel fine.

A farmi i conti in tasca ho avuto modo di sperimentare entrambe queste possibilità, più volte nella mia storia personale. Allo stesso tempo ho anche avuto modo di portare certe sfide ambiziose fino al loro traguardo.

Come ad esempio in quel lungo travaglio, che è stato per me, ottenere la certificazione come coach di Parkour ADAPT. Costatomi anni di allenamento specifico, infortuni di ogni sorta, un esame durissimo a Bergamo (per poco non passato) e infine un secondo tentativo a Londra, questa volta conseguito con successo.

Tutto questo perché lo spettro delle possibilità è sempre vario e definito in larga parte da chi siamo noi, dalla natura dei nostri desideri e dalla nostra capacità di desiderare con un certo “fervore”.


Da questo punto di vista, in quel sentiero che non è quasi mai lineare, ma anzi tortuoso, talvolta labirintico, che porta a un termine particolarmente ambizioso, la vera resilienza in molti casi è proprio quella capacità di convincerci con determinazione a proseguire un percorso, dopo innumerevoli cadute e anche quando il desiderio in questo s'è affievolito.


La vita è una resistenza continua all'inerzia che tenta di sabotare il nostro volere più profondo. Chi si stanca di volere, vuole il nulla.” - Nietzsche


Il fattore attaccamento negli obiettivi del Parkour

Molte delle persone che ho visto raggiungere risultati straordinari in termini di movimento, in questi anni di pratica, mi hanno sempre stupito per un fattore più o meno comune: l'apparente assenza di obiettivi ben definiti e di una struttura organizzata per raggiungerli.

L'obiezione che sorge spontanea è che è questa la magia dei talentuosi e di chi è cresciuto adattando spontaneamente il proprio corpo a una pratica fisicamente tassativa, come quella del Parkour, fin dall'infanzia. In larga parte sono portato a sostenere questa linea, soprattutto avendo visto quanto nella mia esperienza l'aver lavorato con delle mete precise, principalmente in termini di forza e mobilità, mi abbia permesso di accedere a certi movimenti limitando gli infortuni e potenziando la performance.

Tuttavia isolando questo aspetto a quello dei salti o di certe skills, legate a fattori più marcatamente tecnici e/o percettivi che si mescolano “visceralmente” ad alcuni psicologici, questa convinzione è messa in dubbio, una volta superata la mera soglia dell'apprendimento di base di quel determinato schema motorio.

L'impressione è che un approccio “buddista”, di non attaccamento al dover fare un salto ben preciso, ma piuttosto orientato a immergersi nell'esperienza, a potenziare la visione affrontando quei salti che “balzano” davanti agli occhi dove prima non c'erano, possa portare a conseguire dei risultati inaspettatamente grandiosi sul lungo termine, e relativamente in sicurezza.

In particolar modo se questo processo non è contaminato da fattori esterni (pressione sociale/mediatica) o interni (ego, dogmi).

A rafforzare questa idea è la mia storia personale della quantità di insuccessi (e anche infortuni) ottenuti nella smaniosa ricerca di “sbloccare” quel salto o quella tecnica entro un termine prestabilito; per il quale sicuramente il fattore “fai da te”, con il quale ho imparato ad essere maestro di me stesso, non ha mai aiutato troppo in questa direzione.

Ma è nella guida istintiva, anziché all'affidarmi ottusamente a delle drills iper-ripetute (che hanno comunque il loro valore in delle fasi specifiche, specie nei principianti***) o al dogma della forza, che spesso sono stato in grado di accedere a risultati di cui stupirmi. Dettati da una ricerca “a naso” di stimoli sempre nuovi, costruendo così inconsciamente quegli step intermedi utili a portarmi nella direzione voluta. In un tempo però non stabilito a tavolino.

C'è però un grosso punto a sfavore in questo ideale di non-attaccamento, e pare essere proprio l'incapacità di lavorare goal-oriented. Che a lungo termine pare inficiare la motivazione generale verso la pratica, guidandola talvolta verso la dispersività.

E che non avendo aiutato nel maturare quella resilienza, dettata dal ripetuto sbagliare e riprovare dell'altro versante, rischia di deteriorarsi all'avvento delle prime serie difficoltà.


Qual è quindi l'approccio migliore, per fare di quel decantato bagaglio realtà e non illusione? Quello del mulo testardo e metodico, o quello dello spirito leggero che fa della sensazione il suo stendardo? Mi verrebbe da suggerire che il già citato approccio ibrido, applicato a questo frangente, sia la soluzione ideale... in quanto per me in parte lo è.

Questo non tiene conto però della diversità delle persone, degli schemi mentali innati o meno che ognuno adotta, dei talenti e degli svantaggi individuali, per cui il lavoro più grande e difficile è sempre quello di documentarsi, dello sperimentare, dell'imparare a conoscerci e di capire cosa funziona bene sulla nostra pelle, per noi stessi e in relazione alle nostre volontà più o meno profonde.


* si, c'è stato anche qualche infortunio di mezzo, ma in alcuna maniera determinante

** si possono fare anche tanti bei parallelismi con entità e frequenza dei carichi in rapporto a una funzione allenante o al rischio di infortunio

*** sappiamo benissimo che ci sono fior fiore di preparatori atletici che fanno raggiungere livelli di performance altissimi anche su elementi iper-tecnici/percettivi. Tuttavia spesso si tratta di specialisti di un set di gesti limitati, analizzati ossessivamente e generalmente ripetuti nello stesso medesimo contesto, da atleti selezionati “biologicamente” dall'agonismo. Poco a che fare con il Parkour e la sua variabilità di scenari, protagonisti e azioni.