sabato 6 febbraio 2021

Parkour Therapy? - Una guida: Parte II

Precede: Depressione & Parkour e Parkour Therapy? - Una guida: Parte I


L'INFLUENZA NEGATIVA DEL PARKOUR SULLA DEPRESSIONE

 

- Ossessione per la performance

Quando accettiamo nella nostra vita la sfida di un qualcosa che deve produrre un certo risultato tangibile, è inevitabile che ci troveremo a confrontarci con una serie di aspetti sgradevoli.
Aspettative non ripagate, confronto con gli altri, dubbio verso la nostra costanza e le nostre capacità. Nella visione per estremi di chi fa dell'atleticismo e del risultato il centro della propria pratica, si dovrà inevitabilmente imparare a gestire tutti questi aspetti senza esserne sopraffatti, pena plausibile l'arrendersi.

Riuscire in qualcosa per me è sempre stato di vitale importanza. Allo stesso tempo il desiderio di sbloccare salti di continuo, dell'inseguire un'ideale di pratica pura ed estrema, si è più volte presentato come una tentazione così grande da prendere il sopravvento su qualsiasi altro aspetto del Parkour.

Questo ovviamente mi ha portato a sbattere - più volte - la testa di fronte al
la realtà che la mutevolezza delle varie condizioni (fisiche, psicologiche, ambientali) che sono terreno per uno stato atletico ottimale, non sempre rendono la performance lo specchio più affidabile del nostro progredire come persone e del sentirci bene e in pace con noi stessi.

Riconosciuto questo enorme limite dell'ossessività per il risultato ho deciso quindi di toglierle quella posizione centrale nella mia pratica. Pur non negandole quel ruolo fondamentale che possiede, in una disciplina fisica alla cui base sta l'idea di crescita.

Mi prefiggo piuttosto di perseguire questo elemento con onestà, e la consapevolezza che non possiamo essere forti su tutto, né tutti campioni. Specie se siamo tra coloro che possono dedicarci un tempo limitato.
C
erco anche di tenere a mente che perdermi in un nugolo di obiettivi confusionari e spesso non propri, non sempre giova all'autostima... semmai lascia l'idea sgradevole di un pugno di mosche in mano.

Ciò che facciamo deve possedere la capacità di auto-ispirarci e darci la chiara sensazione che, anche di poco, stiamo crescendo. Deve diventare lo specchio in grado di restituirci l'immagine di noi più vera possibile (non quella narcisistica dei social o delle nostre aspettative), con la quale confrontarci in tutti gli aspetti in cui siamo maturati e in un arco di tempo molto più lungo del semplice quotidiano.

- Fuori comfort prolungato

Per chi come me è cresciuto nel dogma del test costante, in cui una cosa la sai fare veramente solo se la sai fare in ogni condizione, la sfida con la paura e il limite diventa componente di ogni allenamento e suprema chiave di crescita. Altrettanto facilmente, come per la performance, anche questo dogma rischia di dominarci, facendoci perdere quel processo complicato che è il dialogo con noi stessi.


Lavorare frequentemente fuori comfort, con
elevati volumi ed alte intensità (emotive oltre che meccaniche), è causa di un livello di stress generale considerevolmente alto, specie se siamo in quella fase della vita in cui non abbiamo la giovane ferocia dalla nostra e di contro maggiore esperienza dell'errore e di un corpo "vissuto".

L'approcciarmi costantemente
al mettersi in situazione di test, ignorando il dialogo interiore, ha nutrito nel tempo un effetto opposto a quello ricercato... arrivando ad essermi causa di stanchezza e agitazione anche nell'affacciarmi a situazioni "mentali" già affrontate. Oltre che rendendomi tendenzialmente più teso e nervoso in vari momenti della giornata, senza apparente motivo*.

Cosa, questa, della quale ho preso coscienza solo negli ultimi anni, in parte imputata ai vari mutamenti fisiologici dell'essere più vecchio e meno "duro".
Riguardando, però, all'insieme della mia esperienza
con oggettività, questa situazione si rivela essere sempre stata in varie misure una costante, da me spesso fraintesa come il processo vero e proprio. In effetti parte integrante della ricerca del proprio limite, ma anche frutto dell'inesperienza nell'autoregolarsi e dell'ambizione selvaggia.

Il perpetrare ostinatamente questa logica del test, non mi ha risparmiato di trovarmi sia in situazioni di infortunio che di inaspettato overtraining**, anche a poca distanza da un periodo di scarico, con un evidente peggioramento della performance ed, al suo culmine,
in occasionali ed allarmanti tachicardie all'ostinato tentativo di "spingere".

In questa condizione il sistema nervoso non ha fatto che risentirne. In un clima generale di affaticamento e di difficoltà varie, si è stabilito un loop alternante
di brevi periodi di energica iperattività ad altri di indolenza, sconforto ed autosvilimento, senza un sostanziale e lineare miglioramento in alcuna direzione, bensì con la comparsa di vari stati depressivi di ritorno.

Alla luce di questo, preciso che il mio non è un invito a non testarsi, anzi. Continuo a credere che l'uscire fuori comfort, quanto il lavorare sulla performance, possegga un ruolo di primo piano nella pratica e sia la chiave principale per poter crescere e superarsi. Credo an
che che questo processo talvolta vada portato oltre il consueto.

Tutto ciò però non deve avvenire senza un sincero ascolto di sé e l'essere contestualizzato (
senza scuse) a come ci sentiamo e a quanto siamo allenati, per poi essere porzionato nella giusta misura - ed infine integrato - nel nostro allenamento.

In sintesi, se c'è una certa assiduità nel nostro modo di allenarci o il fattore determinante di una vita già di per sé intensa e stressante, l'uscire fuori comfort è un parametro che non dovrebbe essere lasciato totalmente al caso o all'ostinazione... bensì ad un accurato ascolto di noi stessi e dei nostri bisogni reali.

I quali non escludono la nostra volontà di maturare un'attitudine coraggiosa e forte, ma rendono il nostro lavoro consapevole e misurato: meno causa possibile di stallo e malessere, più utile ad una nostra crescita felice e sostenibile.

*ovviamente ciò non può essere imputabile a questo solo fattore, soprattutto se già c'è una base di generale tensione psichica. È comunque una correlazione che ho stabilito empiricamente avendone notato la prossimità con periodi di forte allenamento e lavoro fuori comfort.
** che in verità é overreaching non funzionale, sebbene erroneamente identificato con l'overtraining


Infortuni

Sappiamo tutti che mediamente il Parkour praticato come disciplina ha statisticamente una bassissima casistica di infortuni gravi. Per chi invece persegue la disciplina come sport finalizzato all'agonismo e unicamente alla performance, il discorso può essere ben diverso.

Come citato in precedenza, l'ossessione per la performance o per l'attitudine ad ogni costo, è una forte spinta verso la depressione, specie quando il prezzo è l'irreparabilità di un danno.

Allo stesso tempo ognuno di noi, do o jutsu che sia, ha nella sua esperienza distorsioni, stiramenti, infiammazioni croniche ed altre amenità che rendono spesso la nostra pratica un continuo, sofferente adattamento e che soprattutto ci danno consapevolezza di una certa inevitabilità dell'infortunio stesso. Questo ci obbliga a sviluppare un certo dialogo e rapporto con il dolore che diventa fondamentale per un sereno proseguo nella disciplina.

È idealistico, pensare di vivere in un mondo in cui non troveremo il dolore ad attenderci da qualche parte, sebbene la nostra società, demonizzante di tutti quegli aspetti negativi intrinsechi alla vita stessa, voglia farci credere il contrario.

Sapere accettare (entro una certa misura) la presenza di dolore nella nostra vita è una abilità di spicco per la nostra sopravvivenza. Imparare a sbagliare, farsi male e ricostruire anche decine di volte, fronteggiando sempre di più in maniera positiva l'avversità è infine  resilienza nella sua forma più pura.

Questo però è un processo che, anche senza ricercare sfacciatamente il danno, paradossalmente ci porterà a sostare in un temporaneo stato di malessere psicofisico che, finchè non affrontato fino ad una sua risoluzione positiva, non gioverà di certo alla nostra autostima e pace interiore.

Questo degli infortuni e del rapporto col dolore, è infine un argomento complesso, tra i più significativi nella storia individuale di ognuno di noi (che pratichi Parkour o meno).
Per la quantità enorme di aspetti di cui discuterne, è mio desiderio approfondirlo con un futuro post dedicato.



- Abuso di libertà

La libertà, nel Parkour, è uno degli elementi più amati e spesso fraintesi da chi pratica. Gli abusi vari che ne derivano possono portare alle situazioni più al limite e controverse che aleggiano sopra la nostra immagine pubblica, con tutte le ripercussioni del caso.

Tra tutte le forme "degenerate" di questa condizione restringerò il campo, riallacciandomi ad uno degli argomenti del post precedente, andando nello specifico a parlare di quella condizione di abuso di libertà che deriva dalla forte mancanza di autodisciplina.


Nella mia esperienza personale, la disciplina nell'allenamento ha avuto un ruolo importante fin dall'inizio. Lo svolgimento meccanico di un allenamento
strutturato ha avuto sempre più come scopo quello di "educarmi" che la funzionalità stessa dell'allenamento.

Negli anni, avendo maturato allergia alle strutture (per l'esercizio costante di queste attraverso il coaching), volendo mettere in discussione i vecchi dogmi e subendo l'influenza sfiancante del flagello degli infortuni, questa capacità di autodisciplinarsi è talvolta venuta meno: più incostante e confusionaria, a volte produttiva, a volte dannosa.

Non fraintendetemi, do grande valore alla libertà nell'allenamento:
All'affinamento delle sensazioni, dell'esplorazione e della capacità di farsi guidare istintivamente verso le sfide giuste per noi.
Non potrei altrimenti considerare come bello e vitale ciò che pratico senza questo aspetto ricorrente di "mancanza di piani".

L'autodisciplina non nega la libertà, ne sancisce un limite.

Ci sono volte che mi trovo a confrontarmi col fatto che, perseguendo una pratica basata unicamente sull’istintività e sull’ispirazione,
senza piani né struttura, potenzialmente potrei trovare la realizzazione massima di me come persona in movimento.

Allo stesso tempo, una persona deve essere onesta con sé stessa per capire di cosa necessita e che lavoro deve fare sulla propria persona, oltre che sul proprio corpo.
Per me l'autodisciplina è il tenere lontano quella "
sensazione di buttare la vita e il tempo in seno alla pigrizia" che "è carbone nella caldaia della depressione", come citato nello scorso capitolo.

Ma il ruolo più grande esercitato da questa pratica (al di fuori dell'aiutarmi a correggere i miei comportamenti autolesivi) è quello di continuare a nutrire significato per ciò che faccio, attraverso tutti i suoi riti che sanciscono un impegno costante ed inderogabile, base per la fiducia di sé e di un cambiamento monitorabile.

Perché la perdita di significato di un qualcosa di prezioso è ciò che temo di più, nel suo subdolo nascondere il nulla più buio.

L'esercizio della libertà pura è quindi una vetta utopica alla quale ambisco dopo aver portato la disciplina al suo miglior compimento per la mia persona.
Altrimenti temo il pericolo della vaghezza, che la libertà spesso porta con se, nella quale è facile perdersi nell’inconcludenza e nel non riuscire a direzionare la propria vita con decisione.


- Rischio di auto-emarginazione

Che sia da soli o con le proprie cerchie, la pratica è una gabbia dorata, una bolla di benessere nella quale ricerchiamo bei momenti e serenità, se non la grande soddisfazione dello spingere oltre i propri limiti.

Come ogni gabbia dorata, il Parkour possiede la capacità temporanea di isolarci dalla realtà. Se la nostra pratica è occasionale, questa possibilità non può che esercitare una funzione positiva, ma se siamo totalmente immersi in questo terreno e il nostro comfort di pratica è
in solitario o con pochi compagni, il rischio è di perdere una solida presa sulla realtà e di alienarci dal resto del mondo. 

La figura del praticante solitario, che popola gli spazi urbani in maniera completamente diversa dal resto dell'umanità, è un immagine indubbiamente affascinante a molti pionieri e non solo.
Scarpe devastate, che portano le cicatrici di mille muri, pantaloni consunti e bucati, graffi sulle braccia sono le medaglie con le quali molti di noi valutano il proprio essere "true".
Per buona parte di noi è solamente questione di praticità, anziché dell'ostentare un’attitudine: non ci si può permettere materiale sempre nuovo e vestiti pregiati che inevitabilmente, nel giro di pochi allenamenti, si finiranno per danneggiare.

Tuttavia l'immagine che per noi risulta ideale non sempre ci viene restituita da quello specchio, che spesso è la società, come "vincente". Anzi.

Nel qual momento iniziassimo ad identificare il nostro io praticante con tutta la nostra vita, il rischio di scivolare nell'ottica di trasandatezza ed isolamento del "lupo solitario" inevitabilmente prima o poi, in base ad un mutamento della nostra percezione, potrebbe diventare un pesante macigno sulle nostre spalle.
A meno che, ovviamente, non siamo coscientemente seguaci di Diogene "il pazzo".

Rifiutare l'aspetto di relazione con gli altri (che siano praticanti o la società che ci circonda) significa chiudersi al confronto ed isolarsi sempre di più nella propria "bolla" che rifiuta la realtà.
Aprirsi allo stesso tempo ha il costo di sacrificio di una parte della nostra individualità alla quale siamo faticosamente arrivati nella ricerca di noi stessi: è il paradosso del doversi conformare agli altri per continuare a nutrire la propria crescita!

Come ogni altro aspetto della vita, anche questo processo di integrazione necessita di sforzi, specie nel dover venire a patti con persone con le quali abbiamo poche affinità di obiettivi. Cosa che può succedere riconoscendo quei punti comuni che possano creare un terreno di scambio e condivisione, senza per forza dover cadere nel conformismo becero e spersonalizzante che non insegna alle persone la diversità.

Ma facendo di alcuni aspetti sociali basilari come la cura di sé e del senso di comunità, altro grande strumento per imparare a volersi bene.



Segue: Parkour Therapy Parte III - Le pratiche complementari


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