mercoledì 6 giugno 2012

Un buco nell'acqua


È passato lungo tempo dall’ultima volta che ho scritto in questo blog, di cose ne sono successe, nuove evoluzioni, nuove considerazioni, una domanda più opprimente delle altre: e se l’Australia fosse un proverbiale buco nell’acqua

Uscito dalla farm “convinto del mio valore” mi sono scontrato nuovamente con la realtà, passando tre settimane chiuso in un ostello, nel mentre combattendo contro il mal di schiena e cercando invano un lavoro, per mettermi poi di nuovo in viaggio diretto verso Melbourne. Qua mi aspettava l’amico tedesco della farm e tante aspettative gonfiate dalle varie opinioni incontrate sul cammino a riguardo del lavoro, in seguito più o meno tradite. Il mio impatto con la città è stato sgradevole; il ritrovarsi in una metropoli gigantesca, alloggiando in un ostello collegato ad un irish pub lontano 5 km dal centro, il più economico ed ovviamente sporco e malfunzionante, è stato sgradevole. Senza tanti giri di parole Melbourne dal principio la ho odiata, una megalitica distesa di cemento -per quanto verde possa esserci all’interno a paragone con le nostre grandi città- contornata di suburbs, distanze enormi, servizi pubblici costosi, episodi di gente maleducata, priva del fascino di Sydney sebbene dotata di architetture interessanti. Rimpiangevo la tranquillità di Hobart, la mia camera singola con tutte le suppellettili incluse pagata solamente con l’onere dell’essere responsabile notturno, il cullarmi in uno stile di vita poco lontano da quello di casa, il disegnare e il chiacchierare con i gestori portoghesi immigrati di lunga data, le frequentazioni con le poche amicizie fisse che ero riuscito a farmi all’interno di quella piccola realtà. Ma in fin dei conti ero convinto di mentire a me stesso, pochi soldi per esplorare i dintorni, scarsissima offerta di lavoro, poca gente con la quale pianificare un eventuale viaggio e gli amici locali che a breve sarebbero partiti verso altri lidi o diretti a casa. Melbourne invece sembrava un sogno, con le sue 11.000 offerte di lavoro su GumTree (sito specializzato su annunci d’ogni genere) a dispetto delle scarse 500 di Hobart, da cui imperativo il bisogno di muoversi al più presto, rinunciando temporaneamente al progetto di visitare la Tasmania della quale in fin dei conti ho visto solo la capitale e la strada tra quella e la farm. Nonostante l’iniziale disprezzo per la città mutato positivamente poi nello scoprirla, socialmente non ho avuto troppi problemi ad ambientarmi con la nuova realtà, nuove amicizie, qualche divertimento, qualche italiano (veneto per di più) col quale poter parlare liberamente dopo 3 mesi, il tutto sempre più diradato con l’approssimarsi dell’inverno, le piogge frequenti, il vento gelido, le giornate sempre più corte e buie. Un pezzo di carne progressivamente spolpato che lascia all’osso viaggiatori in breve passaggio e una comunità irlandese di lavoratori con la quale ho pochi approcci, rare simpatie e molte più antipatie, forse anche reciproche.

Il fattore più tragico rimane sempre quello legato al mondo del lavoro. Dopo una settimana di sbattere la testa qua e là inviando inutilmente curriculum per mail o portandone a mano, mi sono ritrovato con l’amico tedesco a fare un brain-storming, nel quale ho iniziato a notare i difetti del mio approccio a partire dal curriculum stesso: un inutile e lungo minestrone di esperienze lavorative, banale e poco credibile. Ho iniziato così a sfoltire il tutto, separare i curriculum -uno per lavorare nell’edilizia, un altro per lavorare nella ristorazione- renderli credibili, essenziali e adatti a più situazioni, e a combattere il mio vero demone: il telefono. Già questo mi è fonte di disagio e incomprensioni in Italia, figurarsi in un paese straniero dove ci si trova a dover fronteggiare accenti più o meno incomprensibili, inevitabile comunque utilizzarlo se si vuole avere qualche possibilità in più di trovare lavoro. Un principio di letterali figure di merda, ma che perlomeno in alcuni casi fortuiti di interlocutori comprensibili mi ha permesso di avere accesso a qualche colloquio, anche se infine il primo lavoro è stato paradossalmente grazie ad una richiesta via internet ed è stato gestito per mail senza l’apporto di alcun curriculum. Prima esperienza, sandwich-hand/salad maker e aiuto cuoco in un cafè del centro gestito da uno sgradevole svizzero, iniziata con uno stipendio da fame (13 dollari l’ora, meno del minimo sindacale, nessun pasto incluso, solo sconto del 40% sui prodotti) e un 30 ore di lavoro settimanali, ma con la promessa di un contratto regolare e 16 dollari l’ora dopo il periodo di prova e successivamente più soldi ancora. Ritmi di vita intensi, quasi new-yorkesi, sveglia alle 5 e mezza con gente ubriaca in giro per l’ostello fino a notte fonda e il rumoroso pub sottostante, 40 minuti tra metro e camminata, inizio alle 7 con ancora il buio, lavoro fino alle 12 e 30, mezz’ora per il pranzo portato da casa e altre 2-3 ore di lavoro, poi allenamento coi ragazzi del posto oppure fiondarsi in ostello a dormire per un paio d’ore, cenare e prepararsi il pranzo per il giorno dopo. Una settimana e mezza così, in un ambiente non prettamente congeniale ma gradevole, orgoglioso di guadagnarsi i propri soldi e dell’imparare nuove cose, soddisfatto nel riconoscersi gradualmente sempre più veloce e professionale. Ma a quanto pare non tutti erano della stessa idea: la domenica della seconda settimana, una brutta giornata umida e piovosa, l’hangover della sera precedente che ancora premeva sulle tempie, disagio fisico, un messaggio sul cellulare -poco prima di incontrarsi davanti ad un museo con l’amico tedesco- che mi avvisa “hai fatto un buon lavoro ma cerchiamo qualcuno con più esperienza” e mi invita a passare a prendere gli ultimi soldi il mercoledì e a restituire la t-shirt del cafè. Mi si è riaperto ancora un abisso, ancora una volta con pochi spiccioli contati in tasca insufficienti per muoversi altrove, l’amarezza dell’aver rifiutato altri lavori nel frattempo per cercare di essere corretti e avere una parvenza di stabilità, il trovarsi ancora a dover ritardare progetti con un scandire inesorabile del tempo come il timer di una bomba.

Conta quanta gente punta tutto in questa storia 
conta quanta gente è spinta fuori traiettoria 
conta quanta gente che ora conta su un miraggio 
finora quanta gente ancora spera in questo viaggio

Quasi 4 mesi passati qua, sempre sul filo del rasoio e nell’indecisione: voglio lavorare o viaggiare? Decisioni importanti che bisogna prendere sul serio e ragionare attentamente prima di partire. Sono venuto qua con un progetto chiaro di cosa fare, che a breve ho sconvolto completamente, spaventato ho agito guidato più dall’istinto che dalla razionalità. Non posso sapere come sarebbe andata se avessi rispettato i progetti originali, o se avessi approfittato delle opportunità che mi offriva Sydney, al costo di mentire e dichiarare una permanenza nella città per 6 mesi sebbene non realmente intenzionato. In un infinità di varianti che è la vita -sulle quali commiserarsi dell’aver praticamente buttato 4 mesi senza avere concluso alcun obiettivo impostomi, delle costanti occasioni con le ragazze sprecate in un turbinio di mind-fuck, del non sapere entrare nell’ottica australiana del don’t worry-, semplicemente accetto come realtà unica quella che è già accaduta ed è immutabile. Gettare la spugna è stata la mia tentazione dopo l’aver perso il lavoro, ma che guadagno ne avrei avuto a tornare a casa da sconfitto, senza più un soldo, senza alcun progresso mentale consolidato ed un inglese che ancora fa fatica ad entrarmi in testa?

Si, l’inglese è una parentesi della quale voglio discutere. Intanto voglio specificare alcune varianti principali: non è necessario sempre saperlo parlare correttamente per avere un qualche risultato, ma è vitale se non siete il tipo di persona giusta. Mi spiego meglio, ho conosciuto alcuni italiani dal principio fino a qua e i casi che mi sono ritrovato sono dei più vari, da persone che sono venute qua con un inglese quasi inesistente ma che grazie all'esperienza, all'intraprendenza e in alcuni casi a qualche altro fattore che ha a che fare con la prevedibilità umana -non voglio girarci intorno, mi riferisco al fatto che se sei una ragazza e sei carina sei sempre più disposta ad essere aiutata- sono riuscite in alcuni loro obiettivi di permanenza, altre ancora che nella medesima situazione sono state costrette a chiudersi in farm per 7 mesi fino a spaccarsi letteralmente la schiena ma venendone fuori con un inglese comprensibile, poi quelle che sanno vendere la propria italianità esuberante e il loro accento stereotipato -che io non posseggo minimamente- e quelle altre che vengono qua con le idee chiare, le giuste esperienze in tasca ed un inglese fluente che dopo un paio di giorni già lavorano ad ottime condizioni. Poi ci sono io, un inglese scritto e letto ottimamente, parlato comprensibile e con ottima pronuncia, ma una capacità di ascolto pessima e una timidezza castrante. In 4 mesi alcuni progressi ci sono stati di sicuro e non piccoli, ma spesso e volentieri alla vergogna di chiedere di ripetere per più di due volte ho sopperito con un semplice “yeah” di circostanza, fatto che spesso crea situazioni imbarazzanti, scarsa comunicabilità e fa crollare castelli di carte

Ci sono questi fattori e tanti altri quali il parlare con accento e una correttezza sulle frasi ultra ripetute che lascia intendere all’interlocutore una buona conoscenza dell’inglese che poi si rivela non tale quando questi inizierà a parlare in maniera fitta e ostica o il constatare che alcuni filmati in accento australiano continuano a rimanere incomprensibili negli stessi punti anche dopo mesi di pratica, ad aumentare il disagio nei confronti della comunicazione. In definitiva se non siete come gli esempi vincenti sopraccitati, non veniteci qua senza un inglese molto preparato, spesso e volentieri l’alternativa è chiudersi in se stessi per incapacità comunicazionale o stringersi in comunità di persone della stessa lingua o livello linguistico, che ruotano attorno a chi parla meglio di loro l’inglese, senza praticarlo seriamente, destinati al lavoro in farm o allo sfruttamento ad opera di connazionali immigrati. Si, ci sono i fattori accento, gli slang differenti… come mi è stato rivelato da un irlandese che ha lavorato per un breve periodo in una farm anche loro hanno difficoltà in alcuni casi a comprendersi a vicenda sebbene entrambi di radice anglo-sassone, ma l’australiano o il neozelandese è solamente un accento, non una lingua diversa, in cui “r” e “o” vengono arrotondate e le altre lettere masticate fino a rendere parole semplici quasi sconosciute. Forse lo scozzese può essere una lingua diversa, cambiano così tanto le vocali e la cadenza della pronuncia da stravolgere il tutto, ma in fin dei conti la verità è che spesso e volentieri il problema è nostro di noi che non sappiamo l’inglese più che dell’interlocutore che non sa farsi capire.

Altra parentesi è venire qua con le idee chiare su cosa fare, su come muoversi e non trovarsi con l’acqua alla gola; avere un’esperienza seria ed utile può essere determinante per entrare nel mondo del lavoro. Gongolarsi nelle indecisioni è una perdita di tempo, a lungo sono stato indeciso se investire soldi e fare il corso per la white card e lavorare nell’edilizia -unica vera esperienza utile e redditizia che possiedo-, ma la paura di buttare via 200 $ senza magari avere alcuna prospettiva sicura di lavoro considerata la concorrenza irlandese proprio non mi allettava, meno dell’idea di lavorare ancora all’aperto durante l’inverno. Tanta è stata l’indecisione che ormai i soldi sono troppo risicati per poter fare alcuna mossa del genere e alla fine in mancanza di un’alternativa valida il fiondarsi su lavori nella ristorazione rimane la scelta più ovvia, consci che qualcuno con esperienza reale sarà sempre uno scalino sopra di noi. Uno che avrà avuto un passato da pizzaiolo, da chef o da pasticciere, riuscirà in breve tempo a conquistarsi un lavoro sicuro a condizioni ottimali, tutti gli altri saranno persi nella selva del kitchen-hand -aiuto cuoco- che spesso e volentieri si rivelerà essere un lavapiatti malpagato e in alcuni casi anche in nero, con tonnellate di concorrenza. Questa è la strada che mi sono scelto per ora, spero sempre che la posizione in cucina mi dia accesso a cariche più alte, già il lavorare come sandwich-hand mi regalava più orgoglio e possibilità future e l’evitare di lavare piatti, pertanto anche se la strada è ostica sono disposto a seguirla.
Tutto ciò si scontra purtroppo anche coi progetti a medio/lungo termine che si hanno. L’indecisione mi ha fatto sprecare quasi 4 mesi del mio visto, so che se voglio prendere il secondo da un anno come risorsa per il futuro devo procacciarmi 3 mesi (due mesi e mezzo forse, considerando i giorni della prima farm) di lavoro nelle realtà rurali, siano queste farm o edilizia. Poi due mesi sicuri li voglio dedicare puramente al viaggiare e ai tempi morti in attesa di un lavoro, siano essi frammentati in vari scaglioni o continuativi. Progetti che col senno attuale sembrano di difficile attuazione, non sapendo se riuscirò a consolidare un lavoro in tempo breve, tuttavia nuovi fattori sono entrati gioco a darmi più chance: fame, mentire ed esperienza.

Cosa sono questi? Beh semplicemente la fame è la paura concreta di rimanere senza soldi per strada e senza cibo, il guardarsi attorno e sapere di dover fare sempre sacrifici di ogni sorta per mancanza di un reddito… uno dei migliori incentivi che spinge ad attivarsi a 360° per ottenere ciò che si vuole, la paura che attiva meccanismi di sopravvivenza e toglie parte delle seghe mentali sul chiamare numeri di telefono, starsene ore sui siti di annunci a cercare di beccare quello al momento giusto e chiamare, attivarsi per girare un po’ ovunque con curriculum alla mano. Non voglio dire che sono arrivato veramente alla fame e che mi sono attivato come un ossesso, ma che effettivamente lo spettro di un fallimento e ancor peggio della perdita di ciò che è basilare per la autoconservazione mi ha spinto ad impegnarmi molto più seriamente nel cercare un lavoro, tantovero che mi sono ritrovato addirittura a fare un’ora e mezzo di treno per presentarmi ad un colloquio in uno dei tanti suburbs che circondano questa città.

Il fattore mentire è quello più amaro, quello che si basa su tante questioni più o meno implicitamente morali ma soprattutto di auto-stima. Sono una persona che trova fastidioso mentire, lo so fare e anche bene, ma cerco sia di vivere nella coerenza e sincerità per evitare sgradevoli rimasugli, sia l’evitare di dichiarare qualcosa che effettivamente non so fare perché timoroso del dimostrarsi non all’altezza della situazione. Già compilare il curriculum è stata un’opera di menzogna dal principio, d’altronde se vuoi avere qualche possibilità in un settore in cui non hai esperienza reale -solo domestica nel mio caso- ma nel quale pensi di poterti destreggiare, il passaggio è obbligatorio… Così dalle timide bugie dei primi curriculum l’esperienza ha iniziato a gonfiarsi in progress, constatando che la poca dichiarata non mi era di molto aiuto nel dare un’immagine quanto meno confortante delle mie capacità. Tuttavia il fattore è relativamente d’aiuto, spesso e volentieri i datori neanche li guarderanno essendo ormai disillusi dalle bugie dei backpackers, valuteranno direttamente le capacità con una prova e in fin dei conti le uniche menzogne più o meno valide saranno quelle relative al tempo di permanenza dichiarato che tanto mi condizionava all'inizio, sempre 6 mesi anche se si ha intenzione di starne la metà.
E qui entra in gioco l’esperienza, quella che pian piano si è insinuata con le prime fallimentari prove di lavoro, con lo studio a casa, e migliorata dall’esigenza di dimostrarsi abile. Il mix finale di questi elementi garantisce lo spingersi oltre ai propri limiti, siano questi morali che mentali, guardare un po’ più in faccia a ciò che si vuole ottenere e incamminarcisi verso con passo un po’ più sicuro. Come risultato mentre scrivo questo sono reduce da una prova come kitchen-hand avuta buon esito, nella quale i colleghi si sono dimostrati interessati al mio operato e favorevoli ad un’eventuale assunzione, il tutto grazie ad una serata di prova in settimana su un altro posto -non andata a buon fine- dove ho imparato a muovermi in una cucina più grande e a gestire le pulizie. In addizione a fine prova ho sostenuto un colloquio in un altro cafè nel quale mi sarebbe richiesta maggiore responsabilità in cucina e un altro trial è stato fissato per la settimana prossima, ma non cantando vittoria come uscita di emergenza cerco di crearmi la possibilità di raggiungere un amico irlandese fuori Melbourne per fare flower-picking a 18 $ l’ora.

Per quante difficoltà abbia vissuto finora e quante ancora ne stia vivendo, lo spronarsi a migliorare la propria condizione è già un risultato che in fin dei conti ti fa pensare “No, non è stato un buco nell’acqua venire fino a qua”, anche se è un parere sempre mutevole. Sperando in un minimo aggancio di stabilità che mi sposti quantomeno un po’ dal baratro in cui sono vicino, il lavoro che dovrò iniziare a fare sarà nuovamente mentale, ovvero quello di iniziare a sentire i propri progetti futuri come qualcosa di realmente attuabile, lo stato attuale come un mezzo per potersi dedicare a ciò che si vuole veramente anche se a costo di sacrifici, pronti veramente a sentirsi dire “don’t worry”. Idealismo forse, nella mia situazione precaria è ancora facile cadere tra stati emotivi opposti dettati dall'umore, non si sa mai che il destino voglia che io mi avvicini ancora di più all’orlo per dover tirare fuori tutto il meglio di me, o il peggio.

I need my conscience to keep watch over me
To protect me from myself
So I can wear honesty like a crown on my head
When I walk into the promised land

Nell’ultimo paio di mesi ho vissuto diversi stati emotivi e mentali, a lungo ho avuto modo di ragionare sulla mia personalità e sulla via che ho intrapreso, diverse testimonianze mi hanno aiutato a configurare ciò che voglio essere nella vita. Vi parlerò della generosità ad esempio, di come mi sia stata donata la possibilità di avere un posto caldo e accogliente come casa da persone che fondamentalmente avrebbero potuto non muovere un dito nei miei confronti, come tanti altri sconosciuti legittimamente fanno. Seguendo una nuova amicizia al di fuori dalla farm mi sono ritrovato al Hobart Hostel, un delizioso ostello poco fuori dal centro cittadino -il migliore in cui sia stato finora- gestito da una coppia di immigrati portoghesi di lunga data. Lì ho conosciuto una ragazza della Valtellina, da 3 mesi in Australia, che lavorava in loco e contemporaneamente fungeva da responsabile notturna dell’albergo. Un compito che semplicemente permetteva al gestore di tornare a dormire a casa sua, con i soli oneri rimanenti di controllare eventuali problemi in caso di attivazione dell’allarme, invitare ospiti rumorosi alla calma nelle ore notturne e rispondere a possibili chiamate dopo l’orario di chiusura, il tutto ricompensato con una camera singola dotata di scrivania, comodino e frigo ad uso personale. Una manna non indifferente per chi è abituato a considerare casa un piano di un letto a castello in una stanza condivisa con non meno di 6 persone e raramente a pagare meno di 20 $ al giorno per tanto.

Dopo un mese di sola pratica d’inglese o sola alternativa silenzio, una lunga chiacchierata in lingua madre è stata liberatoria, soprattutto avendo trovato come interlocutrice una persona affine, le cui motivazioni di partenza erano simili quanto buona parte della visione del mondo… la ragazza in questione dopo 3 mesi e alcuni obbiettivi raggiunti era in procinto di tornare a casa passando prima per la Nuova Zelanda per qualche settimana, complice l’imminente nascita di nipoti, la mancanza soffocante delle montagne -quelle vere, non le dolci colline tasmane- ma fondamentalmente la stanchezza di una situazione in cui amicizie andavano e venivano, di un’impresa che lasciava sempre un chiodo di solitudine conficcato tra le costole, senza alcuna vera compagnia permanente con la quale condividere gli eventi. Chiacchierando inevitabilmente delle reciproche esperienze lavorative il consiglio datomi è stato quello di fermarsi ad Hobart per cercare un lavoro, come incentivo l’intercessione con il gestore per farmi ereditare il posto come guardiano notturno. Inutile dire che la proposta mi è suonata subito allettante e non ho esitato a considerarla in altro modo che positiva: raramente posso dire che colpi di culo del genere mi caschino in mano e sarebbe stato stupido non approfittarne, tuttalpiù che il mal di schiena ritornato dopo lo spostamento era di scarso incentivo al muoversi nuovamente. Ciò ovviamente cozzava con la realtà, ovvero quella di una cittadina con scarsa offerta di lavoro e avviata verso la bassa stagione, sulla quale mi ci confrontavo con il solito vecchio approccio di curriculum debole, consegna a mano e niente uso del telefono. Le due settimane a seguire sono state appunto di lotta contro il mal di schiena, qualche disegno, cazzeggio e sbattere la testa per un lavoro.

Non voglio dire però che sono state sprecate del tutto, l’opportunità mi ha dato modo di confrontarmi con delle persone splendide come ad esempio la coppia portoghese gestrice dell’ostello e i due ragazzi nativi americani che stavano lavorando temporaneamente come ricercatori per lo stato della Tasmania… persone con le quali ho condiviso valori e pensieri comuni, il concetto di “is the way I want to live”, storie di vita e allo stesso modo lo scoprire realtà che emergono da altri punti del mondo. Matt mi ha raccontato di come sia la vita nel Montana, tra persone non intrinsecamente cattive ma che finiscono per fare azioni cattive, di suo fratello che si sacrifica per il bene della famiglia tagliando barre d’acciaio, con le mani sempre più storpie per le condizioni di lavoro e una ferita d’arma da fuoco, Tony di come in Portogallo non riusciva a dormire la notte per le preoccupazioni economiche e invece come qua abbia trovato una vita serena e rilassata. Non mi dilungherò ulteriormente su quali sono stati gli episodi che mi hanno colpito di più, sulla natura delle considerazioni scambiate, basti sapere che sono stati d’esempio per ricordarmi il modo in cui voglio condurre la mia vita e in parte per tenermi lontano da comportamenti sbagliati legati alla frustrazione dei momenti difficili. Eh si, perché questi sono sempre dietro all’angolo… non parlo di furti o chissà che cosa, ma di azioni meschine, per vendetta, per invidia o quant’altro. Il resistere alla tentazione della violenza verso chi si approccia con comportamenti irrispettosi, ritorsioni vigliacche a queste azioni, lo scacciare pensieri di invidia o il fastidio provocato da qualcuno per motivi puramente irrazionali.

Tutte cose che mi sono passate per la testa nel momento più difficile, quello in cui avrei voluto gettare la spugna e tornarmene a casa da sconfitto, tutte cose che col senno di poi riconosci come frutto della frustrazione del non riuscire in ciò che si vuole, del sentirsi sempre schiavi dell’approvazione altrui e di una pigrizia paranoide e vischiosa che trascina in un circolo vizioso che non porta a nulla. Non credo sia il modo migliore di confrontarmi col mondo e me stesso ma il nemico più grande che continuo a percepire è quello che vedo allo specchio. Colui che non posso realmente sconfiggere ma che devo farmi amico, quello che mi intrappola e deteriora le mie azioni, che mi rende insicuro e debole anche sui movimenti più banali quando mi alleno, che mi inchioda alla pigrizia e alle mie paure, da quelle concrete alle più irrazionali e superstiziose, che mi giudica costantemente. Mi sono costruito un dio dentro di me stesso e l’ho eletto tanto a giudice e castigatore della mia persona quanto ad esempio di ciò che vorrei essere, e adesso è il momento di iniziare ad affrontarlo gradualmente, a controllarlo. Voglio iniziare a vivere serenamente, a non inventare scuse per ogni sfida dal quale mi ritiro, ad ottenere ciò che voglio senza farmi troppi scrupoli ma restando sempre dalla parte del giusto, a liberarmi da questa pigrizia e a VIAGGIARE.  Quattro mesi in questo viaggio, ormai più che in un altro lato del mondo dentro di me stesso.

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