È passato lungo tempo dall’ultima volta che ho scritto in
questo blog, di cose ne sono successe, nuove evoluzioni, nuove considerazioni,
una domanda più opprimente delle altre: e se l’Australia fosse un proverbiale buco
nell’acqua?
Uscito dalla farm “convinto del mio valore” mi sono scontrato nuovamente con la
realtà, passando tre settimane chiuso in un ostello, nel mentre combattendo contro il mal di schiena e cercando invano
un lavoro, per mettermi poi di nuovo in viaggio diretto verso Melbourne. Qua mi
aspettava l’amico tedesco della farm e tante aspettative gonfiate dalle varie
opinioni incontrate sul cammino a riguardo del lavoro, in seguito più o meno
tradite. Il mio impatto con la città è stato sgradevole; il ritrovarsi in una
metropoli gigantesca, alloggiando in un ostello collegato ad un irish pub
lontano 5 km dal centro, il più economico ed ovviamente sporco e malfunzionante,
è stato sgradevole. Senza tanti giri di parole Melbourne dal principio la ho odiata, una
megalitica distesa di cemento -per quanto verde possa esserci all’interno a
paragone con le nostre grandi città- contornata di suburbs, distanze enormi, servizi
pubblici costosi, episodi di gente maleducata, priva del fascino di Sydney
sebbene dotata di architetture interessanti. Rimpiangevo la tranquillità di
Hobart, la mia camera singola con tutte le suppellettili incluse pagata
solamente con l’onere dell’essere responsabile notturno, il cullarmi in uno
stile di vita poco lontano da quello di casa, il disegnare e il chiacchierare
con i gestori portoghesi immigrati di lunga data, le frequentazioni con le
poche amicizie fisse che ero riuscito a farmi all’interno di quella piccola
realtà. Ma in fin dei conti ero convinto di mentire a me stesso, pochi soldi per
esplorare i dintorni, scarsissima offerta di lavoro, poca gente con la quale
pianificare un eventuale viaggio e gli amici locali che a breve sarebbero
partiti verso altri lidi o diretti a casa. Melbourne invece sembrava un sogno,
con le sue 11.000 offerte di lavoro su GumTree (sito specializzato su annunci
d’ogni genere) a dispetto delle scarse 500 di Hobart, da cui imperativo il
bisogno di muoversi al più presto, rinunciando temporaneamente al progetto di
visitare la Tasmania della quale in fin dei conti ho visto solo la capitale e la
strada tra quella e la farm. Nonostante l’iniziale disprezzo per la città mutato positivamente poi nello scoprirla,
socialmente non ho avuto troppi problemi ad ambientarmi con la nuova realtà,
nuove amicizie, qualche divertimento, qualche italiano (veneto per di più) col
quale poter parlare liberamente dopo 3 mesi, il tutto sempre più diradato con
l’approssimarsi dell’inverno, le piogge frequenti, il vento gelido, le giornate
sempre più corte e buie. Un pezzo di carne progressivamente spolpato che lascia
all’osso viaggiatori in breve passaggio e una comunità irlandese di lavoratori
con la quale ho pochi approcci, rare simpatie e molte più antipatie, forse
anche reciproche.
Il fattore più tragico rimane sempre quello legato al mondo
del lavoro. Dopo una settimana di sbattere la testa qua e là inviando
inutilmente curriculum per mail o portandone a mano, mi sono ritrovato con
l’amico tedesco a fare un brain-storming, nel quale ho iniziato a notare i
difetti del mio approccio a partire dal curriculum stesso: un inutile e lungo
minestrone di esperienze lavorative, banale e poco credibile. Ho iniziato così
a sfoltire il tutto, separare i curriculum -uno per lavorare nell’edilizia, un
altro per lavorare nella ristorazione- renderli credibili, essenziali e adatti
a più situazioni, e a combattere il mio vero demone: il telefono. Già questo mi
è fonte di disagio e incomprensioni in Italia, figurarsi in un paese straniero
dove ci si trova a dover fronteggiare accenti più o meno incomprensibili,
inevitabile comunque utilizzarlo se si vuole avere qualche possibilità in più
di trovare lavoro. Un principio di letterali figure di merda, ma che perlomeno
in alcuni casi fortuiti di interlocutori comprensibili mi ha permesso di avere
accesso a qualche colloquio, anche se infine il primo lavoro è stato paradossalmente
grazie ad una richiesta via internet ed è stato gestito per mail senza
l’apporto di alcun curriculum. Prima esperienza, sandwich-hand/salad maker e
aiuto cuoco in un cafè del centro gestito da uno sgradevole svizzero, iniziata
con uno stipendio da fame (13 dollari l’ora, meno del minimo sindacale, nessun
pasto incluso, solo sconto del 40% sui prodotti) e un 30 ore di lavoro
settimanali, ma con la promessa di un contratto regolare e 16 dollari l’ora
dopo il periodo di prova e successivamente più soldi ancora. Ritmi di vita
intensi, quasi new-yorkesi, sveglia alle 5 e mezza con gente ubriaca in giro
per l’ostello fino a notte fonda e il rumoroso pub sottostante, 40 minuti tra
metro e camminata, inizio alle 7 con ancora il buio, lavoro fino alle 12 e 30,
mezz’ora per il pranzo portato da casa e altre 2-3 ore di lavoro, poi
allenamento coi ragazzi del posto oppure fiondarsi in ostello a dormire per un
paio d’ore, cenare e prepararsi il pranzo per il giorno dopo. Una settimana e
mezza così, in un ambiente non prettamente congeniale ma gradevole, orgoglioso
di guadagnarsi i propri soldi e dell’imparare nuove cose, soddisfatto nel
riconoscersi gradualmente sempre più veloce e professionale. Ma a quanto pare
non tutti erano della stessa idea: la domenica della seconda settimana, una
brutta giornata umida e piovosa, l’hangover della sera precedente che ancora
premeva sulle tempie, disagio fisico, un messaggio sul cellulare -poco prima di
incontrarsi davanti ad un museo con l’amico tedesco- che mi avvisa “hai fatto un
buon lavoro ma cerchiamo qualcuno con più esperienza” e mi invita a passare a
prendere gli ultimi soldi il mercoledì e a restituire la t-shirt del cafè. Mi
si è riaperto ancora un abisso, ancora una volta con pochi spiccioli contati in tasca
insufficienti per muoversi altrove, l’amarezza
dell’aver rifiutato altri lavori nel frattempo per cercare di essere corretti e
avere una parvenza di stabilità, il trovarsi ancora a dover ritardare progetti
con un scandire inesorabile del tempo come il timer di una bomba.
conta quanta gente è spinta fuori traiettoria
conta quanta gente che ora conta su un miraggio
finora quanta gente ancora spera in questo viaggio
Quasi 4 mesi passati qua, sempre sul filo del rasoio e
nell’indecisione: voglio lavorare o viaggiare? Decisioni importanti che bisogna
prendere sul serio e ragionare attentamente prima di partire. Sono venuto qua
con un progetto chiaro di cosa fare, che a breve ho sconvolto completamente,
spaventato ho agito guidato più dall’istinto che dalla razionalità. Non posso
sapere come sarebbe andata se avessi rispettato i progetti originali, o se
avessi approfittato delle opportunità che mi offriva Sydney, al costo di
mentire e dichiarare una permanenza nella città per 6 mesi sebbene non
realmente intenzionato. In un infinità di varianti che è la vita -sulle quali
commiserarsi dell’aver praticamente buttato 4 mesi senza avere concluso alcun
obiettivo impostomi, delle costanti occasioni con le ragazze sprecate in un
turbinio di mind-fuck, del non sapere entrare nell’ottica australiana del don’t
worry-, semplicemente accetto come realtà unica quella che è già accaduta ed è
immutabile. Gettare la spugna è stata la mia tentazione dopo l’aver perso il
lavoro, ma che guadagno ne avrei avuto a tornare a casa da sconfitto, senza più
un soldo, senza alcun progresso mentale consolidato ed un inglese che ancora fa
fatica ad entrarmi in testa?
Si, l’inglese è una parentesi della quale voglio discutere. Intanto
voglio specificare alcune varianti principali: non è necessario sempre saperlo
parlare correttamente per avere un qualche risultato, ma è vitale se non siete
il tipo di persona giusta. Mi spiego meglio, ho conosciuto alcuni italiani dal
principio fino a qua e i casi che mi sono ritrovato sono dei più vari, da
persone che sono venute qua con un inglese quasi inesistente ma che grazie all'esperienza, all'intraprendenza e in alcuni casi a qualche altro fattore che ha a che fare con la prevedibilità
umana -non voglio girarci intorno, mi riferisco al fatto che se sei una ragazza
e sei carina sei sempre più disposta ad essere aiutata- sono riuscite in alcuni
loro obiettivi di permanenza, altre ancora che nella medesima situazione sono
state costrette a chiudersi in farm per 7 mesi fino a spaccarsi letteralmente
la schiena ma venendone fuori con un inglese comprensibile, poi quelle che
sanno vendere la propria italianità esuberante e il loro accento stereotipato
-che io non posseggo minimamente- e quelle altre che vengono qua con le idee
chiare, le giuste esperienze in tasca ed un inglese fluente che dopo un paio di
giorni già lavorano ad ottime condizioni. Poi ci sono io, un inglese scritto e
letto ottimamente, parlato comprensibile e con ottima pronuncia, ma una
capacità di ascolto pessima e una timidezza castrante. In 4 mesi alcuni
progressi ci sono stati di sicuro e non piccoli, ma spesso e volentieri alla
vergogna di chiedere di ripetere per più di due volte ho sopperito con un
semplice “yeah” di circostanza, fatto che spesso crea situazioni imbarazzanti,
scarsa comunicabilità e fa crollare castelli di carte.
Ci sono questi fattori e
tanti altri quali il parlare con accento e una correttezza sulle frasi ultra ripetute
che lascia intendere all’interlocutore una buona conoscenza dell’inglese che
poi si rivela non tale quando questi inizierà a parlare in maniera fitta e
ostica o il constatare che alcuni filmati in accento australiano continuano a
rimanere incomprensibili negli stessi punti anche dopo mesi di pratica, ad
aumentare il disagio nei confronti della comunicazione. In definitiva se non
siete come gli esempi vincenti sopraccitati, non veniteci qua senza un inglese
molto preparato, spesso e volentieri l’alternativa è chiudersi in se stessi per
incapacità comunicazionale o stringersi in comunità di persone della stessa
lingua o livello linguistico, che ruotano attorno a chi parla meglio di loro
l’inglese, senza praticarlo seriamente, destinati al lavoro in farm o allo
sfruttamento ad opera di connazionali immigrati. Si, ci sono i fattori accento,
gli slang differenti… come mi è stato rivelato da un irlandese che ha lavorato
per un breve periodo in una farm anche loro hanno difficoltà in alcuni casi a
comprendersi a vicenda sebbene entrambi di radice anglo-sassone, ma
l’australiano o il neozelandese è solamente un accento, non una lingua diversa,
in cui “r” e “o” vengono arrotondate e le altre lettere masticate fino a
rendere parole semplici quasi sconosciute. Forse lo scozzese può essere una
lingua diversa, cambiano così tanto le vocali e la cadenza della pronuncia da
stravolgere il tutto, ma in fin dei conti la verità è che spesso e volentieri
il problema è nostro di noi che non sappiamo l’inglese più che
dell’interlocutore che non sa farsi capire.
Altra parentesi è venire qua con le idee chiare su cosa
fare, su come muoversi e non trovarsi con l’acqua alla gola; avere
un’esperienza seria ed utile può essere determinante per entrare nel mondo
del lavoro. Gongolarsi nelle indecisioni è una perdita di tempo, a lungo sono
stato indeciso se investire soldi e fare il corso per la white card e lavorare
nell’edilizia -unica vera esperienza utile e redditizia che possiedo-, ma la
paura di buttare via 200 $ senza magari avere alcuna prospettiva sicura di
lavoro considerata la concorrenza irlandese proprio non mi allettava, meno
dell’idea di lavorare ancora all’aperto durante l’inverno. Tanta è stata
l’indecisione che ormai i soldi sono troppo risicati per poter fare alcuna
mossa del genere e alla fine in mancanza di un’alternativa valida il fiondarsi
su lavori nella ristorazione rimane la scelta più ovvia, consci che qualcuno
con esperienza reale sarà sempre uno scalino sopra di noi. Uno che avrà avuto
un passato da pizzaiolo, da chef o da pasticciere, riuscirà in breve tempo a
conquistarsi un lavoro sicuro a condizioni ottimali, tutti gli altri saranno
persi nella selva del kitchen-hand -aiuto cuoco- che spesso e volentieri si
rivelerà essere un lavapiatti malpagato e in alcuni casi anche in nero, con
tonnellate di concorrenza. Questa è la strada che mi sono scelto per ora, spero
sempre che la posizione in cucina mi dia accesso a cariche più alte, già il
lavorare come sandwich-hand mi regalava più orgoglio e possibilità future e
l’evitare di lavare piatti, pertanto anche se la strada è ostica sono disposto
a seguirla.
Tutto ciò si scontra purtroppo anche coi progetti a
medio/lungo termine che si hanno. L’indecisione mi ha fatto sprecare quasi 4
mesi del mio visto, so che se voglio prendere il secondo da un anno come
risorsa per il futuro devo procacciarmi 3 mesi (due mesi e mezzo forse,
considerando i giorni della prima farm) di lavoro nelle realtà rurali, siano
queste farm o edilizia. Poi due mesi sicuri li voglio dedicare puramente al
viaggiare e ai tempi morti in attesa di un lavoro, siano essi frammentati in
vari scaglioni o continuativi. Progetti che col senno attuale sembrano di
difficile attuazione, non sapendo se riuscirò a consolidare un lavoro in tempo
breve, tuttavia nuovi fattori sono entrati gioco a darmi più chance: fame,
mentire ed esperienza.
Cosa sono questi? Beh semplicemente la fame è la paura
concreta di rimanere senza soldi per strada e senza cibo, il guardarsi attorno
e sapere di dover fare sempre sacrifici di ogni sorta per mancanza di un
reddito… uno dei migliori incentivi che spinge ad attivarsi a 360° per ottenere
ciò che si vuole, la paura che attiva meccanismi di sopravvivenza e toglie
parte delle seghe mentali sul chiamare numeri di telefono, starsene ore sui
siti di annunci a cercare di beccare quello al momento giusto e chiamare,
attivarsi per girare un po’ ovunque con curriculum alla mano. Non voglio dire
che sono arrivato veramente alla fame e che mi sono attivato come un ossesso,
ma che effettivamente lo spettro di un fallimento e ancor peggio della perdita
di ciò che è basilare per la autoconservazione mi ha spinto ad impegnarmi molto
più seriamente nel cercare un lavoro, tantovero che mi sono ritrovato addirittura
a fare un’ora e mezzo di treno per presentarmi ad un colloquio in uno dei tanti
suburbs che circondano questa città.
Il fattore mentire è quello più amaro, quello che si basa su
tante questioni più o meno implicitamente morali ma soprattutto di auto-stima.
Sono una persona che trova fastidioso mentire, lo so fare e anche bene, ma
cerco sia di vivere nella coerenza e sincerità per evitare sgradevoli rimasugli,
sia l’evitare di dichiarare qualcosa che effettivamente non so fare perché
timoroso del dimostrarsi non all’altezza della situazione. Già compilare il
curriculum è stata un’opera di menzogna dal principio, d’altronde se vuoi avere
qualche possibilità in un settore in cui non hai esperienza reale -solo
domestica nel mio caso- ma nel quale pensi di poterti destreggiare, il
passaggio è obbligatorio… Così dalle timide bugie dei primi curriculum
l’esperienza ha iniziato a gonfiarsi in progress, constatando che la poca
dichiarata non mi era di molto aiuto nel dare un’immagine quanto meno
confortante delle mie capacità. Tuttavia il fattore è relativamente d’aiuto,
spesso e volentieri i datori neanche li guarderanno essendo ormai disillusi
dalle bugie dei backpackers, valuteranno direttamente le capacità con una prova
e in fin dei conti le uniche menzogne più o meno valide saranno quelle relative
al tempo di permanenza dichiarato che tanto mi condizionava all'inizio, sempre 6 mesi anche se si ha
intenzione di starne la metà.
E qui entra in gioco l’esperienza, quella che pian piano si
è insinuata con le prime fallimentari prove di lavoro, con lo studio a casa, e
migliorata dall’esigenza di dimostrarsi abile. Il mix finale di questi elementi
garantisce lo spingersi oltre ai propri limiti, siano questi morali che
mentali, guardare un po’ più in faccia a ciò che si vuole ottenere e
incamminarcisi verso con passo un po’ più sicuro. Come risultato mentre scrivo
questo sono reduce da una prova come kitchen-hand avuta buon esito, nella quale
i colleghi si sono dimostrati interessati al mio operato e favorevoli ad
un’eventuale assunzione, il tutto grazie ad una serata di prova in settimana su
un altro posto -non andata a buon fine- dove ho imparato a muovermi in una
cucina più grande e a gestire le pulizie. In addizione a fine prova ho
sostenuto un colloquio in un altro cafè nel quale mi sarebbe richiesta maggiore
responsabilità in cucina e un altro trial è stato fissato per la settimana
prossima, ma non cantando vittoria come uscita di emergenza cerco di crearmi la
possibilità di raggiungere un amico irlandese fuori Melbourne per fare
flower-picking a 18 $ l’ora.
Per quante difficoltà abbia vissuto finora e quante ancora
ne stia vivendo, lo spronarsi a migliorare la propria condizione è già un
risultato che in fin dei conti ti fa pensare “No, non è stato un buco
nell’acqua venire fino a qua”, anche se è un parere sempre mutevole. Sperando
in un minimo aggancio di stabilità che mi sposti quantomeno un po’ dal baratro
in cui sono vicino, il lavoro che dovrò iniziare a fare sarà nuovamente
mentale, ovvero quello di iniziare a sentire i propri progetti futuri come
qualcosa di realmente attuabile, lo stato attuale come un mezzo per potersi
dedicare a ciò che si vuole veramente anche se a costo di sacrifici, pronti
veramente a sentirsi dire “don’t worry”. Idealismo forse, nella mia situazione
precaria è ancora facile cadere tra stati emotivi opposti dettati dall'umore, non si sa mai che il
destino voglia che io mi avvicini ancora di più all’orlo per dover tirare fuori
tutto il meglio di me, o il peggio.
I need my conscience to keep watch over me
To protect me from myself
So I can wear honesty like a crown on my head
When I walk into the promised land
Nell’ultimo paio di mesi ho vissuto diversi stati emotivi e
mentali, a lungo ho avuto modo di ragionare sulla mia personalità e sulla via
che ho intrapreso, diverse testimonianze mi hanno aiutato a configurare ciò che
voglio essere nella vita. Vi parlerò della generosità ad esempio, di come mi
sia stata donata la possibilità di avere un posto caldo e accogliente come casa
da persone che fondamentalmente avrebbero potuto non muovere un dito nei miei
confronti, come tanti altri sconosciuti legittimamente fanno. Seguendo una
nuova amicizia al di fuori dalla farm mi sono ritrovato al Hobart Hostel, un
delizioso ostello poco fuori dal centro cittadino -il migliore in cui sia stato
finora- gestito da una coppia di immigrati portoghesi di lunga data. Lì ho
conosciuto una ragazza della Valtellina, da 3 mesi in Australia, che lavorava
in loco e contemporaneamente fungeva da responsabile notturna dell’albergo. Un
compito che semplicemente permetteva al gestore di tornare a dormire a casa
sua, con i soli oneri rimanenti di controllare eventuali problemi in caso di attivazione
dell’allarme, invitare ospiti rumorosi alla calma nelle ore notturne e
rispondere a possibili chiamate dopo l’orario di chiusura, il tutto
ricompensato con una camera singola dotata di scrivania, comodino e frigo ad
uso personale. Una manna non indifferente per chi è abituato a considerare casa
un piano di un letto a castello in una stanza condivisa con non meno di 6
persone e raramente a pagare meno di 20 $ al giorno per tanto.
Dopo un mese di sola pratica d’inglese o sola alternativa silenzio,
una lunga chiacchierata in lingua madre è stata liberatoria, soprattutto avendo
trovato come interlocutrice una persona affine, le cui motivazioni di partenza
erano simili quanto buona parte della visione del mondo… la ragazza in
questione dopo 3 mesi e alcuni obbiettivi raggiunti era in procinto di tornare
a casa passando prima per la Nuova Zelanda per qualche settimana, complice
l’imminente nascita di nipoti, la mancanza soffocante delle montagne -quelle
vere, non le dolci colline tasmane- ma fondamentalmente la stanchezza di una
situazione in cui amicizie andavano e venivano, di un’impresa che lasciava
sempre un chiodo di solitudine conficcato tra le costole, senza alcuna vera
compagnia permanente con la quale condividere gli eventi. Chiacchierando
inevitabilmente delle reciproche esperienze lavorative il consiglio datomi è
stato quello di fermarsi ad Hobart per cercare un lavoro, come incentivo
l’intercessione con il gestore per farmi ereditare il posto come guardiano
notturno. Inutile dire che la proposta mi è suonata subito allettante e non
ho esitato a considerarla in altro modo che positiva: raramente posso dire che colpi di culo
del genere mi caschino in mano e sarebbe stato stupido non approfittarne,
tuttalpiù che il mal di schiena ritornato dopo lo spostamento era di scarso
incentivo al muoversi nuovamente. Ciò ovviamente cozzava con la realtà, ovvero
quella di una cittadina con scarsa offerta di lavoro e avviata verso la bassa
stagione, sulla quale mi ci confrontavo con il solito vecchio approccio di
curriculum debole, consegna a mano e niente uso del telefono. Le due settimane
a seguire sono state appunto di lotta contro il mal di schiena, qualche
disegno, cazzeggio e sbattere la testa per un lavoro.
Non voglio dire però che sono state sprecate del tutto,
l’opportunità mi ha dato modo di confrontarmi con delle persone splendide come
ad esempio la coppia portoghese gestrice dell’ostello e i due ragazzi nativi
americani che stavano lavorando temporaneamente come ricercatori per lo stato
della Tasmania… persone con le quali ho condiviso valori e pensieri comuni, il
concetto di “is the way I want to live”, storie di vita e allo stesso modo lo
scoprire realtà che emergono da altri punti del mondo. Matt mi ha raccontato di
come sia la vita nel Montana, tra persone non intrinsecamente cattive ma che
finiscono per fare azioni cattive, di suo fratello che si sacrifica
per il bene della famiglia tagliando barre d’acciaio, con le mani sempre più
storpie per le condizioni di lavoro e una ferita d’arma da fuoco, Tony di come
in Portogallo non riusciva a dormire la notte per le preoccupazioni economiche
e invece come qua abbia trovato una vita serena e rilassata. Non mi dilungherò
ulteriormente su quali sono stati gli episodi che mi hanno colpito di più,
sulla natura delle considerazioni scambiate, basti sapere che sono stati
d’esempio per ricordarmi il modo in cui voglio condurre la mia vita e in parte per
tenermi lontano da comportamenti sbagliati legati alla frustrazione dei momenti
difficili. Eh si, perché questi sono sempre dietro all’angolo… non parlo di furti
o chissà che cosa, ma di azioni meschine, per vendetta, per invidia o quant’altro.
Il resistere alla tentazione della violenza verso chi si approccia con
comportamenti irrispettosi, ritorsioni vigliacche a queste azioni, lo scacciare
pensieri di invidia o il fastidio provocato da qualcuno per motivi puramente
irrazionali.
Tutte cose che mi sono passate per la testa nel momento più
difficile, quello in cui avrei voluto gettare la spugna e tornarmene a casa da
sconfitto, tutte cose che col senno di poi riconosci come frutto della
frustrazione del non riuscire in ciò che si vuole, del sentirsi sempre schiavi
dell’approvazione altrui e di una pigrizia paranoide e vischiosa che trascina
in un circolo vizioso che non porta a nulla. Non credo sia il modo migliore di
confrontarmi col mondo e me stesso ma il nemico più grande che continuo a percepire è quello che vedo allo specchio.
Colui che non posso realmente sconfiggere ma che devo farmi amico, quello che
mi intrappola e deteriora le mie azioni, che mi rende insicuro e debole anche
sui movimenti più banali quando mi alleno, che mi inchioda alla pigrizia e alle
mie paure, da quelle concrete alle più irrazionali e superstiziose, che mi
giudica costantemente. Mi sono costruito un dio dentro di me stesso e l’ho
eletto tanto a giudice e castigatore della mia persona quanto ad esempio di ciò
che vorrei essere, e adesso è il momento di iniziare ad affrontarlo
gradualmente, a controllarlo. Voglio iniziare a vivere serenamente, a non
inventare scuse per ogni sfida dal quale mi ritiro, ad ottenere ciò che voglio
senza farmi troppi scrupoli ma restando sempre dalla parte del giusto, a
liberarmi da questa pigrizia e a VIAGGIARE. Quattro mesi in questo viaggio, ormai più che
in un altro lato del mondo dentro di me stesso.
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