giovedì 29 marzo 2012

Memorie dell’apple-picker

Vi avevo lasciati con il don’t give up e in certo senso ho rispettato il mio proposito. In un certo senso perché ho definitivamente constatato che a Sidney trovare un lavoro sarebbe stata un’impresa troppo dispendiosa in termini di tempo e denaro. Mi sono arreso si, ma all’evidenza che il periodo in cui mi trovo è forse uno dei peggiori per ottenere un lavoro, la città è in off-season per quello che riguarda il turismo vero e proprio, ma in compenso è inflazionata dal turismo dei backpackers, una moltitudine di zainisti come me, desiderosi di trovare un lavoro occasionale con il quale raccogliere abbastanza denaro da poter proseguire il loro viaggio, nella maggior parte dei casi verso il Queensland attraverso la calda east-coast. Non voglio dire che in Sydney non ci siano possibilità di trovare lavoro, ma semplicemente che se il tuo obbiettivo è quello di muoverti l’impresa non ti sarà per niente facile, dato che molti non assumono a priori persone con il working holiday visa e molti altri ti chiedono di stare per almeno 5 mesi nella città se vuoi lavorare per loro. Aggiungeteci sopra un inglese debole come ulteriore spina sul fianco e il gioco è fatto. 
La mia ultima settimana l’ho passata nell’indecisione di cosa fare, come muovermi e aspettando una chiamata sul cellulare per sapere se qualcuno voleva o no assumermi, ma di contro l’ho spesa cercando di divertirmi e sfruttare quelli che forse sarebbero potuti essere i miei ultimi giorni in Australia. Trascinato contro la mia volontà in un nuovo ostello  e separandomi così dalle amicizie che ero riuscito ad instaurare nel primo, dopo un paio di giorni di spaesamento ho iniziato ad integrarmi con la nuova realtà, conoscendo nuove persone tra cui:

- Melissa, studentessa portoghese reduce da due anni di studio a Londra, dotata di una brillante cultura ma soprattutto della capacità di trascinare le persone con la sua solarità e rara bellezza, alla quale buona parte dei ragazzi dell’ostello credo abbia lasciato giù un pezzo di cuore, me compreso e nuovamente rammaricato dal mio inglese ridicolo che non mi permette di esprimermi neanche a metà del suo livello;

- Il Còg, il fiero marchigiano accompagnato dallo “zio” Nico, in visita dell’amico solo per una settimana in Australia, ai quali sono debitore di incoraggiamenti, compagnia italica, numerose birre e di uno spirito un po’ più positivo ma anche incurante nei confronti della situazione complicata;

- Will il trascinante gallese con Jimmy Hendrix tatuato sulla spalla e il compagnone bombardiere inglese Phil, che praticamente mi hanno offerto una sbornia dopo una bella bevuta appena la sera precedente contro le loro pressoché costanti ubriacature serali.

Questi solo i più importanti, poi ci sarebbero da aggiungere Jerome, il simpatico danese compagnone del còg, Dane, ex free-runner e musicista di strada gallese dagli occhi blu che conquista tanti dollari baskerando quanti cuori di ragazze sorridendo, la bella bionda svedese che non voleva accettare il fatto che fossi italiano e non tedesco o russo, l’amichevole olandese di cui non ricordo il nome -Marcus?-, aspirante pittore e curioso nel voler imparare frasi e ricette straniere, Andrea, ragazza ventenne danese in visita solo una notte e in viaggio in giro per il mondo da quasi 8 mesi. Queste solo alcune delle persone con le quali ho passato l’ultima settimana a Sydney, meno ossessionato dai soldi e più tranquillo, tanto da permettermi di andare a vedere Aphex Twin e perdere il cellulare in metro, salvo poi uscire coi ragazzi a ballare di nuovo.

Posso dire che è con un po’ di tristezza che ho iniziato ad impacchettare le mie robe dopo aver comprato per 170 $ il mio biglietto per Hobart, intenzionato a cercare una farm o perlomeno a spendere gli ultimi risparmi visitando uno dei miei obbiettivi qua in Australia: la Tasmania. È così che mi sono trovato in una città, molto più grande di una come Padova ma densamente meno popolata, che trovo comodo definire “indie”. Come m’immagino possa essere una Vancouver o una Seattle -sebbene non abbia realmente idea di come siano e a malapena potrei indicarvi dove si trovino in una mappa- così è Hobart: città tranquilla, pulita e ordinata in bei blocchi, anonima dal punto di vista storico nonostante sia la seconda città più antica dopo Sydney, con un porto puramente commerciale e interessante solo per i mezzi ormeggiati, ma dotata a sorpresa di vicoletti nascosti che portano in piccole calli, dove si trovano botteghe di pittori o di artigiani della pelle, esposizioni artistiche, deliziosi cafè e attività varie che magicamente non più tardi delle 9 si estinguono tutte, lasciando una città già poco affollata più desolante di Veternigo in ferragosto.
Un punto interessante è quello musicale: la definizione che ho dato alla città di “indie” è dovuta tanto all’estetica della città quanto all’aver scoperto su wikipedia che il luogo è culla di numerose band del genere; sfogliando poi un giornale d’informazione sugli eventi live locali si può constatare che sebbene con nomi meno grandi di quelli di Sydney, Hobart offre una ricca scelta di concerti anche di nicchia, tra cui un nome che mi è balzato per primo all’occhio quello di Scott Kelly (Neurosis) in tournee da solista; passeggiando in giro poi è facile trovare una sequela di negozi di strumenti musicali sublimemente forniti nonostante le ridotte dimensioni, nei quali mi sono fiondato per provare chitarre, bassi acustici e banjo a scrocco, giusto per sfogare per pochi minuti il bisogno di muovere le mani a ritmo -dato che qua la poca privacy degli ostelli rende impossibile anche l’occasionale onanismo- e sinceramente volenteroso di acquistare una chitarrina di bassa qualità e dalle dimensioni ridotte per 100 $, tanto è il desiderio di avere nuovamente uno strumento musicale a portata di mano… Una voce nella testa mi ha però suggerito “non spendere i soldi prima di averli in mano, non caricarti di pesi quando non sai se dovrai muoverti a breve”.
Un vero peccato, ma forse la scelta migliore considerata la situazione in cu mi sarei trovato a breve.

Nel mio carino ed economico ostello, il “Tassie Backpackers”, dopo aver conosciuto una coppia di francesi sono stato da loro indirizzato verso una loro compaesana in cerca di persone per raggiungere una farm a sud in cui stava iniziando la stagione delle mele. Chiariamo questa parte: io non ho fatto praticamente niente. Dato il suo livello d’inglese quasi da madrelingua, la francese ha chiamato gli uffici del National Harvest, ha parlato con il farmer, ha chiesto informazioni per i biglietti del bus per raggiungere la zona, io ho solo offerto un cappuccino “’cauze u zaved my azz” e ci ho maturato sopra un’infinita serie di seghe mentali su quanti dollaroni avrei potuto fare trattandosi di un lavoro pagato 30 $ per bin di mele, su quanto potesse essere interessante vivere a contatto con una famiglia australiana ed essere nutrito ed ospitato da loro per 130 $ a settimana, su come magari la stagione delle mele con la francese (decisamente non bella ma interessante) avrebbe potuto portare a qualche risvolto particolare etc. etc.

Prima sopresa: la francese mi suggerisce di comprare delle scorte perché non crede che il cibo sia incluso, io mi porto dietro quello che già avevo in ostello rimanente, ovvero una bottiglia d’olio extra vergine (non posso viverne senza), una lattina di albicocche, un pacco di pasta. Nel frattempo dopo le iniziali conversazioni ognuno sembra essere ritornato a farsi i cazzi suoi, a scrivere su facebook le proprie menate e quant’altro; a parte formalità e cose necessarie l’ignorarsi reciprocamente regna sovrano e non sembra pesare a nessuno dei due.

Mercoledì si parte finalmente diretti verso Dover, un viaggio in autobus spalla a spalla con studenti teenager in divisa di ritorno dalla scuola, ovviamente io e la francese seduti in posti differenti che non capiti -per carità- di toccarsi. Il paesaggio è monotono, piccole cittadine piatte ed anonime, serie di colline che ricordano la mia Romagna ma prive di alcunché d’interessante che non siano i soliti alberi della gomma o terra rossa, ogni tanto qualche bello scorcio e soprattutto qualche studentessa carina sulla quale sognarci un po’ sopra.
Dopo un’ora e mezza di scarico di studenti, il conducente ci dice che siamo arrivati a Dover, per quello che vedo un manipolo di case, un minuscolo distributore e un’agenzia immobiliare circondati dalla campagna, senza alcun cartello ad annunciare precedentemente l’arrivo nel paese. La francese sembra sempre un po’ upset, un po’ nevrotica e la prima chiamata per avvertire il farmer che siamo arrivati a destinazione dà come esito un numero inesistente. Già rasenta la sconsolazione e il nervosismo, io semplicemente ricontrollo nel suo I-pad e scopro che il numero da lei imputato nel mio telefono non corrisponde, si risolve l’inghippo con qualche incomprensione e finalmente si chiama e si attende il boss, che arriva in un quarto d’ora con il suo bel pick-up bianco nel quale carichiamo bagagli e le nostre persone.

L’inglese in cui si esprime è decisamente pulito e riesco a comprendere quasi tutto senza problemi; dice di chiamarsi Malcom e di aver vissuto per dieci anni a Sydney e poi aver deciso di tornare in Tasmania per continuare il lavoro di famiglia, fa qualche domanda su come ci è sembrata Sydney e nel frattempo ci si addentra in uno sterrato fangoso ricolmo di meli ai lati.
Altra sorpresa: non siamo soli, dai campi spuntano numerosi asiatici, al quale commento della francese “is full of asian people here” il farmer risponde con qualche disapprezzamento nei loro confronti, ma specificando che non è “racist at all”. Sorpresa  conseguente: la comoda e accogliente casa del farmer in verità è una brutta baracca di lamiera costruita appositamente per ospitare i lavoratori; un locale dotato di quasi tutti i confort -televisione, divani, docce, cessi, lavelli, frigo, angolo cucina e letti a castello- ma tristemente sporco, freddo e affollato, definitivamente non meritevole dei 130 $ settimanali tantomeno che nessun pasto è incluso.

Ed ecco gli ospiti: a sinistra tre cinesi (tutti hong-kongiani qua) -Hin, Loki, l’altro- di-cui-non-so-il-nome-che-sembra-il-più-vecchio-e-ha-la-macchina-e-parla-solo-con-cinesi-e-secondo-me-è-un-pelo-razzista- più una tedesca dalla voce insicura reduce dalla sua prima giornata, a destra (in due camere separate) altre due cinesi -Yoko e la dolce Jenny-, due ragazzi inglesi palestrati da Newcastle pieni di confezioni di proteine -Ed e Garf- e un altro cinese, Kelvin.
Porto dentro le mie cose tranquillo, le soprese sono state come gocce d’acqua su una superficie liscia ed impermeabile: indifferenti, scivolano giù senza impregnarmi tantomeno scalfirmi, anzi l’atmosfera è decisamente interessante e ciò mi piace.
Ma ecco l’ultima sorpresa, la più amara: mi presento allo spigliato Loki, il quale saputo della mia origine italiana mi saluta con un “Uuuuu, we got a badass over here” e al quale domando subito info riguardo al lavoro; mi dice che non è male e io gli chiedo se è vero che è 30 dollari per bucket. Per bin, risponde lui. Io penso che bucket e bin siano la stessa cosa, lui mi accompagna fuori ed ecco la verità. Il bin è qualcosa che io chiamerei più crate, dato che il cantonese mi indica una cassa di legno quadrata un metro e mezzo per un metro e mezzo e alta un altro mezzo abbondante.
Ok, là inizio ad essere un po’ più incazzato, ma tutto sommato penso di poterne cavare ancora abbastanza denaro, tuttalpiù che la tedesca reduce dalla sua prima giornata di lavoro è riuscita a completare 3 bins e mezzo. Mi dico io: se lei è riuscita a farne 3 e mezzo, io sicuramente da badass hardworker ne farò 5. Dopo un po’ di chillin’ around e ammirazione dello splendido paesaggio agricolo all’imbrunire, mi chiudo nella mia sezione del dormitorio, in camera con gli inglesi e l’altro cinese; il pavimento è sporco come quello di un magazzino e devo fare attenzione a dove appoggiare le mie cose per non impolverarle, il materasso del letto è nuovo ma il farmer mi chiede di non rimuovere l’involucro di plastica per non rovinarlo.

 Le successive ore sono state un crescendo di scricchiolii assillanti, inglesi russanti e soprattutto un freddo crescente e paralizzante, attraverso il quale ho iniziato a vestirmi sempre più a strati - già pentito di avere abbandonato vestiti pesanti a Sydney per alleggerire il bagaglio-: prima la maglia a maniche lunghe, poi la felpa invernale, i pantaloni d’allenamento e i calzini di lana, il tutto dentro al mio sacco a pelo, visto che al momento sembra non ci siano coperte disponibili. La mattina successiva il risveglio è stato da semicongelato, fattore che perlomeno mi ha permesso di constatare in un quarto d’ora abbondante  l’unica cosa veramente buona della baracca: docce belle calde e funzionanti, per riprendere l’uso degli arti e togliere il gelo da testa e corpo. Una frugale colazione a base delle pesche sciroppate in lattina ed eccoci in mezzo ai meli, con la propria borsa a tracolla per raccogliere le mele, la propria scala di ferro treppiedi per raccogliere i frutti in alto, le indicazioni da Lee -fratello di Malcom dall’accento decisamente più incomprensibile- su come raccogliere e posare all’interno della borsa e poi dentro il recipiente.

Intanto bisogna avere in mente una cosa: qua non si parla di un meleto a conduzione familiare, ma di ettari di agricoltura intensiva, sempre a conduzione familiare. Poi bisogna capire che per riempire un bin velocemente bisogna essere fortunati: l’area assegnata deve avere poche mele al top e tante al bottom, quelle devono essere rigorosamente grosse e mature, non marcie o bacate, devono esserci pochi pendii, il farmer deve spostarvi il bin abbastanza di frequente con il muletto, la temperatura e le condizioni metereologiche devono essere ideali e -soprattutto- si deve essere fottutamente veloci. I tempi sono razionalizzati in secondi, non minuti; esitare per 5 secondi di più su una mela significa perdere dai 2 ai 4 minuti per riempire una bag dalle 30 alle 50 unità (previsione ottimistica dipendente dalle dimensioni del frutto) che dovrebbe essere riempita e svuotata in non più di 4; considerando che ce ne vogliono non meno di 30-40 per riempire un bin, se impiegherete 8 minuti per ogni singola operazione il tempo totale sarà di circa 4 ore per riempirne solo uno. Con queste prerogative io e la francese in  mezza mattina siamo riusciti a  riempirne uno assieme, poi ognuno ha trascinato la propria scala in una direzione diversa attraverso i campi per applicarsi ad una nuova area in solitudine.

Il bilancio del primo giorno in 10 ore, con molta fatica, una colazione ridicola, nessun pranzo e un quasi suicidio per raggiungere l’esoso supermercato più vicino, tra sali e scendi collinari con una delle due bici disponibili per i lavoratori -con freni quasi assenti, catena praticamente arrugginita e manubrio storto, ovviamente un peso morto da trascinarsi a piedi al ritorno- è stato di quasi 2 bins e mezzo. Il giorno dopo, ancora congelato dato la coperta che non vuole arrivare nonostante le richieste, ma con una colazione migliore e un semplice pranzo a base di uova e bacon -costatomi la perdita di un’ora e mezza tra il cucinare, lavare i piatti e principalmente camminare tra l’area di raccolta e la baracca- è stato a malapena di 3.

Segue il finesettimana, qualche passeggiata a vedere l’anonima spiaggia di Dover, ad allenarsi un po’ in un bella struttura per il work-out poco lontana da essa, nuove spese, qualche parola e birra offerte dai due newcastelliani -per inciso anche loro con un accento ostico in cui principalmente si capisce una sequenza infinita di fuck e varianti- e prima, di nuovo day-off il lunedì a causa di festa nazionale, poi, forse blocco totale del lavoro in settimana a causa di mele poco pronte, ma con la bella notizia che il lavoro è in regola e vale anche per maturare i giorni per il secondo visto.
Ne approfitto così per allenarmi ancora vicino alla spiaggia e, in un momento di pura imbecillità, per cadere brutalmente di schiena provando un movimento troppo al di fuori della mia portata, restare paralizzato dal dolore a terra per quasi 20 minuti, trascinarmi agonizzante e zoppo per altri 20 alla farmacia più vicina e farmi dare dei ridicoli antinfiammatori per 7 dollari, con i quali avrei affrontato altri 40 minuti di camminata -impossibilitato a piegare la schiena, a girarla, con gamba e fianco quasi paralizzati a causa del nervo sciatico incandescente e con una paura fottuta di essermi danneggiato la spina dorsale o rotto il bacino- per ritornare all’accomodation e successivamente cercare di togliermi i vestiti per fare una doccia bollente come suggeritomi, scroccare alla francese la connessione tramite sim sul suo i-pad per domandare consigli ad amici più ferrati in materia, farmi prestare una borsa dell’acqua calda e rantolare verso il letto con quella attaccata sulla schiena finché non avrei trovato abrasioni sulla pelle per il calore.
Due giorni dopo, miracolosamente si riprendeva a lavorare. Tutti tranne me. Preso ancora come un rudere, ma decisamente migliorato a forza di esercizi, docce calde, borsa dell’acqua, tonnellate di antiinfiammatori e una cassa di birra il sabato sera per fare compagnia a quelle dei ragazzi inglesi, volutamente dissoluto nei confronti dei soldi già spesi e non guadagnati, sicuro che con i miei nuovi stivali di gomma da 30 bucks e la scatoletta per mettere il pranzo da consumare direttamente nell’area di lavoro, sarei riuscito a fare -schiena permettendo il primo giorno- abbastanza bins nei giorni successivi.

Realtà e nuova coscienza

Mi sono chiesto spesso, prima e dopo essere partito, cosa significasse per me questo viaggio. La fantomatica storia di “fare i soldi” era già una disillusione prima di partire, figurarsi ora che rischio di rimanerne senza pur lavorando. I paesaggi si, ripagano in parte l’arrivo in questo posto: a Dover ad esempio i tramonti e le albe sono sempre qualcosa di spettacolare e la cittadina, pur tristemente priva di alcunché più vecchio di un secolo, ha il fascino di un film retrò americano sui piccoli paesi di campagna, ma con qualcosa di più esotico. Case di legno e lamiera con la vernice scolorata e scrostata che dominano il paesaggio sopra una collina o guardano il mare da pochi metri immerse in spire di rose. Cavalli dal narcisismo quasi umano che si avvicinano per farsi fotografare meglio, spostandosi dall’ombra di enormi gum-tree o forse salici piangenti? Ovini sconosciuti che pascolano in branco al tramonto, con sullo sfondo due montagne dai picchi gemelli ma di proporzioni differenti per la distanza.
E ancora tramonti e albe folgoranti, la notte un cielo stellato dalle costellazioni indecifrabili e luminosissime, che compare di tanto in tanto da una distesa piatta, quasi come fossero dipinte, di nuvole veloci e scure. E poi la luna, che appare all’improvviso piena, squarciando le nubi e accompagnata dal fragore assordante delle cicale e dai canti bizzarri di un uccello sconosciuto -forse un kookaburra-; poco più grande di quella che si può vedere da noi, ma accecante dalla luminosità tipica e incandescente del sole australiano, la caratteristica principale, assieme alla distesa di nuvole, che rende l’idea di quanto sia fottutamente vasto e incommensurabile questo paese. Di certo abbastanza per esserne rapiti e restare incantati e sognanti di fronte a tanta bellezza, sicuramente una minima parte in confronto ai paesaggi che già solo la Tasmania di per sé può offrire se si decide di esplorarla tutta.

A good point, but not the reason, sicuramente per cui sono qua. Non sono indifferente allo stupore che qualcosa di speciale può offrire, anzi forse ho una sensibilità maggiore di tanti altri nel cogliere la bellezza intrinseca di un soggetto, scomporla in singoli elementi e cercare di renderne l’idea attraverso una sequenza di fotografie. Semplicemente l’incanto è relativo: se si vive a pochi minuti da una delle città più belle al mondo -Venezia-, se si ha trascorso l’infanzia nella bellezza campestre della Romagna appenninica, se a 5 anni si ha visto le spiagge tropicali delle Filippine o le immense campane dorate di Bangkok e se di tanto in tanto si sente dentro di sé gli afrori e le sensazioni nostalgiche di una terra percepita solo in stadio embrionale, l’India, è difficile che qualcosa possa stupire ancora. E a quel punto il confronto non regge, tra due tortelloni con un bicchiere di sangiovese, accompagnati da due parole e una bestemmia con accento romagnolo, anziché l’ignoto che -non- si può mangiare fuori qua -causa prezzo-, quasi sicuramente disgustoso, assieme ad un “Ghiddiyewitye” che si supporrebbe essere stato una volta inglese, oppure un bicchiere di sidro sul ponte di Bassano anziché una cassa di birra costosissima in uno squallido bottleshop, assieme ad un gentile ma formale “G’ddeitoye” o un ”hau’ryeu?”, rigorosamente anche qua senza scontrino. Qual è il motivo dunque? Finora quello che trovo più valido è semplicemente “Get the hell out of here with huge balls”, ovvero acquisire la coscienza del mio valore, tornare a casa con le “palle”, conoscere persone e non essere spaventato da loro, enjoy the life anche se ci si trova in una baracca fredda ed esosa a fare un lavoro giusto un paio di gradini sopra il caporalato.

Un episodio che voglio raccontarvi è quello del sabato della cassa di birra e degli stivali: arrivato alla baracca dopo gli acquisti trovo Ed e Garf nella confusione, seduti sul divano spostato verso la televisione e assi di legno ovunque sparse. Sono là fermi a sorseggiare birra guardando terrorizzati un ragno peloso grande quanto la mia mano, fermo nell’infisso della porta scorrevole della loro camera; ci sono stati quasi un’ora in quella posizione dopo aver cercato le forze per uccidere quella creatura, ma troppo spaventati da eventuali reazioni in caso d’errore.
L’ingrato compito tocca a me, che poco spaventato eseguo velocemente con una delle assi di legno, dispiaciuto per aver tolto la vita ad un animale così interessante. L’impresa mi porta l’appellativo di spider-killer e si festeggia ciò -e il Saint Patrick’s day- svuotando le reciproche casse di birra in allegria, discorrendo su come lavorativamente anche l’Inghilterra sia “totally fucked up” ma come Newcastle sia sicura, senza ragni, nessun altro tipo di animale strano e nocivo e soprattutto senza gente francese. La frecciatina è rivolta soprattutto alle due nuove arrivate, delle francesi tronfie e fastidiose, che a breve avrei odiato per la loro cialtronaggine, opportunismo, per lo spirito da cazzeggiatrici rumorose sul lavoro, per una serie di motivi più o meno irrazionali ma soprattutto per lo sbigottimento (o forse la paura) dell’aver trovato persone che sebbene in Australia dal doppio del mio tempo hanno ancora un inglese pessimo, che non contente allenano guardandosi film sul computer rigorosamente in francese. Nonostante ciò c’è la capacità di divertirsi anche in compagnia di gente non proprio affine, dopo essere stato spesso e volentieri condizionato dal giudizio altrui, cercando di piacere alle altre persone o di isolarmi in caso di difficoltà, mi riscopro più sereno e conscio che non devo per forza piacere a tutti e viceversa, nemmeno litigarci per fissazioni personali, tantomeno chiudermi in me stesso più del necessario. Forse più libero, forse con nuove maschere, ma sinceramente più felice e appagato da una vita al limite della sopravvivenza e da come solo si può essere dopo aver vissuto un dolore fisico che si credeva eterno, che invece sta svanendo giorno dopo giorno.


Questa mattina ho combattuto. Contro il freddo, contro la pioggia, la stanchezza e me stesso. Non è stato propriamente un atto dimostrativo nei miei confronti, credo di essere ormai certo di cosa è la tenacia e di quanto sia radicata in me, di sapere quali sono i miei limiti e come lavorarci sopra: anni difficili, lavori difficili, condizioni climatiche avverse e stanchezza mi hanno già temprato fisicamente, la coscienza di quanto posso spingere oltre, grazie al crederci con la testa, è qualcosa che è arrivato più tardi. Sport, disciplina, stile di vita, qualsiasi cosa possa essere, il parkour è stato un passo ulteriore verso la determinazione e la capacità di spingersi avanti, ma ora forse qualcosa è esaurito in tutto ciò, non devo trovare il modo di dimostrare alcunché a nessuno, tanto più a me stesso. Questo non vuol dire smettere, sia ben chiaro, quando una cosa ti piace non c’è motivo di abbandonarla, tuttalpiù che ci sono ancora tante sfide aperte da completare e ne spuntano sempre di nuove. Semplicemente dubito che il lavoro fisico/mentale su questa ottica mi sia più utile a migliorare la mia persona anziché solo nelle prestazioni fisiche, e non a renderla più naturale e decisa. Non sento più il bisogno di dimostrare a me stesso nulla da questo punto di vista, tantomeno dopo questa mattina, in cui solo io e Georg -il nuovo arrivato, un ragazzo trentunenne tedesco, pelato e con un immenso pizzetto “goatie” rosso, reduce da un anno d’Asia e dai gusti musicali finalmente decenti- ci siamo trovati alle 8 davanti ai nostri bin residui ed intenzionati a completarli nonostante il freddo prepotente e la pioggia che ha fatto esitare perfino i cinesi, arrivati assieme alle francesi due ore dopo il nostro inizio. Inutile dire che è stata una lotta ardua, nessun isterismo, solo la mia giacca impermeabile, gli stivali di gomma, cappello e auricolari e una grande necessità di lavorare dopo il fermo per la schiena e le festività e una settimana tutt’altro che entusiasmante. Lunedì 2 bins e quasi due terzi in 10 ore, schiena dolorante ma peggio ancora i piedi, lancinanti dentro i nuovi stivali e costretti a stare per la maggior parte del tempo sui pioli della scala, trattandosi di un area in cui le mele buone crescono solo sulle cime. Il giorno dopo ancora peggio, completato il bin del giorno precedente ma arrancante nel finirne altri due ed iniziarne uno nuovo, sotto l’afa, un sole accecante e con gli arti distrutti e doloranti. Mercoledì appena capace di finire il bin precedente e iniziarne un altro, di nuovo con le scarpe normali, speranzoso che se per due giorni gli stivali di gomma sono stati inutili, non sarebbero serviti anche quel giorno. E invece piove. Mi fiondo di corsa verso il town mall, bisognoso di usufruire dell’internet point a 6 dollari l’ora e di comprare cibo per i giorni successivi. Ho il mio primo assegno dei primi ed unici due giorni di lavoro delle settimane precedenti, il quale mi ha rivelato con orrore che le tasse non sono incluse dal prezzo stabilito -36 per le gala apples e 32 per le red delicious- e che per qualche ignoto motivo non riesco a riscuotere al supermercato. Il bilancio del giorno è appena di un bin del giorno precedente completato e un mezzo nuovo di red delicious iniziato.

Giovedì un nuovo giorno, sto diventando più veloce ma il record di 16 bins del farmer di qualche anno prima sembra un miraggio, tantomeno stare dietro alla media di 5-6 giornalieri di Loki ed Hin. Verso mezzogiorno mi avvio ancora verso il paese per cercare di riscuotere l’assegno, che con qualche difficoltà che ancora non riesco a comprendere finalmente riesco ad ottenere. Una moltitudine di pensieri mi turbinano nella testa, alcuni relativi alla soddisfazione della velocità che finalmente sto acquisendo, la maggior parte nuovamente al sentirsi un immigrato, ultima ruota del carro che non capisce bene la lingua e la burocrazia di un paese straniero, facilmente soggetto allo sfruttamento e ai raggiri, che matura odio per il dover rinunciare a tutto se non lo stretto essenziale per sopravvivere. Ed e Garf se ne sono andati la mattina presto, hanno capito che questa farm è una bullshit e vanno a tentare la fortuna a Brisbane dove li attende un amico; non so se la fortuna sarà dalla loro, ma di certo l’inglese da madrelingua si. La mia testa invece macina pensieri e cresce in me l’orgoglio per quello che sono e non ho mai capito essere: una persona tenace, coraggiosa che non ha alcun motivo per farsi sminuire dagli altri.
Uno di quelli che anziché rimanere fissi per l’eternità nello stesso punto a compiangersi, a lamentarsi della propria condizione lavorativa, di come il proprio paese faccia schifo, ma in verità ben felice di rimanere con il culo ben saldo sulla poltrona, accudito e sfamato per poter fare la vita da eterno teenager, decide di raccogliere il proprio coraggio e fiondarsi con determinazione in un’impresa dall’esito insicuro, perché la vita così com’è non gli piace e bisogna lottare per cambiarla. E ai grassi miei compaesani, pasciuti nell’abbondanza, tronfi nel loro orgoglio frutto di una sovra-estimazione di se stessi, ora innervositi dalla fine dell’epoca dorata ma sempre convinti che gli immigrati ci rubano il lavoro e che devono andarsene tutti a casa loro, voglio domandare: chi te li raccoglie i pomodori che mangi avidamente per un paio d’euro al chilo? E le mele? Le patate? L’africano che lavora in Sicilia per raccoglierteli per 5 euro al giorno, vivendo in un letamaio che gliene costa 3, il manovale rumeno che paghi in nero una miseria, il bangladeshiano che vende le rose ai ristoranti tra lo scherno della plebaglia e IO che raccolgo mele in un paese straniero valiamo centinaia di volte quello che valete VOI, perché dalla nostra abbiamo il coraggio e la determinazione di fare qualcosa di umile e spesso massacrante in una realtà sconosciuta pur di cercare di sopravvivere e di ambire ad una vita migliore. Con una nuova tenacia, finalmente convinto che valgo e valgo molto, ho raccolto avidamente ed energicamente le ultime mele della giornata. Se devi essere veloce e il tuo lavoro è pagato a cottimo, la qualità può pure essere abissata dalla necessità e dalla determinazione, le mani affondano a strappare grappoli interi anziché esitare sulle giuste caratteristiche di un frutto. Bilancio della giornata quasi 4 bin completati, finalmente sono riuscito a ripagare le spese di due settimane e mezzo di permanenza. Come premio a ricomporre i miei muscoli sempre più sfiniti, una deliziosa bistecca bella spessa trovata in offerta per 5 $, grigliata un poco oltre che al sangue sul barbecue elettrico con pepe, sale, origano e olio d’oliva, accompagnata in un letto di crema di avogado con salsa di soia e da pomodori freschi affettati, sotto lo sguardo ipnotizzato delle francesi vittime della loro stessa inettitudine culinaria.

L’inverno è alle porte qua in Tasmania e le correnti fredde dell’Antartide spingono onde di vento gelido, pioggia fredda, di quella fina, pungente e penetrante fino alle ossa. E oggi ho lottato, incespicando sulla scala scivolosa nonostante il bagnato e le mani che progressivamente perdono sensibilità, ma sereno e determinato perché “spingo il mio valore, niente rassegnazione”. Non il bisogno di mettersi alla prova, è la necessità di sopravvivere a guidare, con la coscienza di essere temprati e valorosi, consci che milioni di uomini nel passato hanno fatto ciò e milioni ancora lo faranno in futuro. Il bin del giorno precedente è completo, c’è tempo per iniziarne un altro finché la furia del vento e dell’acqua non rende definitivamente idiota il voler perseverare, considerando i venti minuti di cammino che servono per ritornare alla baracca. Una doccia che non capisco se gelida o bollente, con le sole mani a bruciare per il refluire del sangue nei vasi capillari, una cena sotto lamiere e plexiglass che amplificano come un bombardamento la furia della pioggia e del vento, che si insinua dalle numerose fessure, bagnando e congelando gli angoli. Il vapore esce fuori dalle nostre bocche dentro la baracca, è chiaro che stiamo scendendo abbondantemente sotto i 10 gradi e il sole è appena tramontato. Il letto sembra l’unico riparo vagamente caldo e nonostante il freddo e il dolore alla spalla persistente ogni notte, in una baracca umida e sporca non riesco a rimpiangere il mio aver preso la decisione di venire in questo paese, tantomeno l’essere stato scartato da un lavoro ingrato pieno di persone inette che cercano di farti sentire inferiore per sentire minore il peso delle loro scelte di vita.

E come ho lottato oggi, lotterò con determinazione anche domani,  senza il supporto del farmer a trascinarmi la cassa, con le intemperie ancora intermittenti ed improvvise, e con solo Georg come collega, entrambi decisi a cercare di recuperare i soldi spesi qua e a partire allo scadere della mia terza settimana con almeno un centinaio di dollari in più che all’arrivo. Ormai è chiaro che questa farm lavora sia sulle mele che sui lavoratori, quasi 5000 dollari mensili di media d’affitto per una baracca sono un po’ troppi, e quando vedi i picchi gemelli innevati a sud, capisci che qua non può solo che peggiorare. Le francesi sembrano un po’ meno allegre dell’inizio, quella con cui sono venuto qua è presa dal suo voler dimostrare a se stessa di potercela fare, rasentando cambi d’umore improvvisi e celando l’isterismo. Non sono una fighetta con l’I-pad che vuole diventare lo Steve Jobs del futuro, non m’interessa rischiare ulteriormente la mia salute di quanto non abbia già fatto fin'ora e non ho alcuna prova da sostenere qua che non sia un mero cercare di battere record per recuperare le giornate piovose a venire.
Solo i cinesi infine resisteranno, anche loro sono consci della situazione ma la cosa che gli interessa è maturare i giorni per il secondo visto e in più sono un gruppo ammirevolmente organizzato. Hanno la macchina, con la quale possono andare a fare la spesa nei supermercati più economici e -come m’immagino possano essere stati i nostri ragazzi del dopo guerra- amano andare a pescare le sere del finesettimana e portarsi a casa ostriche, cozze e pesci che la piccola e carina Jenny -che mi saluta con un “ziao” e alla quale ho dato i miei ultimi antiinfiammatori della schiena per una brutta infiammazione ad un ginocchio che la azzoppava- cucinerà, essendo la cuoca ufficiale delle cene della compagnia. Organizzati e per di più con Hin e Loki come asso nella manica nel completare un numero alto di di bin settimanali, riuscendo a sopperire all'esiguo numero che le due ragazze riescono a completare assieme.  Mercoledì la partenza con Georg, di nuovo ad Hobart e poi si vedrà. Ad essere sincero non senza qualche dispiacere, una vita del genere è piacevole se permette qualche comodità essenziale in più e non nego che in fin dei conti io e i fratelli farmer ci stavamo simpatici reciprocamente, sarà forse per l’istintivo riconoscersi come persone di campagna.
È solo tempo di muoversi ancora, seguo la mia volontà e non ho nessun rimorso, neanche di questa esperienza che non mi avrà portato denaro ma di sicuro mi ha aiutato a riacquisire l’orgoglio in me stesso che in patria andava perduto. 

Al prossimo capitolo.

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