domenica 13 luglio 2025

Parkour - le diverse necessità

Interrompo il mio silenzio su questo blog per buttare giù qualche riflessione che mi gira per la testa da un po'. 

Attualmente sono entrato nel mio undicesimo anno da quando ho iniziato a insegnare questa disciplina. Mi ricordo ancora il mio primo periodo da "coach", di come fossi arrivato in palestra con l'arroganza un po' snob della strada, ma anche entusiasmo da vendere, creatività naif e desiderio di investire molto nella diffusione "istituzionalizzata" del Parkour. (n.b. parlerò di Parkour e non di Art Du Déplacement perchè, nonostante le congruenze, è l'esperienza alla quale mi voglio riferire)

Faccio questo preambolo perchè la lettura del libro degli scritti di Gato mi ha richiamato alla mente molte cose di quegli anni, alcune belle ma non tutte positive. 

Una nota d'ammirazione: Federico "Gato" Mazzoleni è stata una mente brillante e visionaria che ha saputo cogliere quell'essenza di rivoluzione che si nascondeva in questa disciplina e che giustamente, nella sua promozione a un pubblico più grande, non voleva che fosse snaturata a mero prodotto di consumo. In questa impresa ha argomentato le proprie posizioni col rigore della formazione scientifica e una ratio veramente rara in un mondo che vive "di pancia".

Eppure tra le molte considerazioni tratte dal suo blog che, a rileggerle oggi, sembrano ancora fresche per la loro intelligenza e attualità, altre invece sono l'opposto: adatte a un contesto che esisteva solo in quella fase di sviluppo del Parkour. Spesso polemiche atte a definire l'identità di qualcosa di nuovo, talvolta sterili, e a posteri influenti solo per quella che è rimasta una nicchia di questo mondo.

Senza scendere più a fondo, le riflessioni stimolate da questa lettura mi hanno:

1 - spinto a fare una revisione della  mia esperienza personale come coach e di come sia cambiato il mio punto di vista in questi 11 anni

2 -  posto l'interrogativo di quali siano le necessità attuali di chi popola questo mondo. Praticanti, studenti, coach, atleti ma anche genitori e gestori di impianti/associazioni, comuni etc (i quali, volenti o nolenti, fanno ormai storicamente parte di qeusta realtà).

È quest'ultimo punto che voglio approfondire perchè sento che manchi molta discussione a riguardo, soprattutto in relazione all'evoluzione avuta finora. Per comodità raccoglierò questo popolo in tre categorie ("i praticanti", "i corsisti", "gli altri") e spiegherò quelle che intuisco essere le necessità di ognuna di esse.

- I praticanti.

Chi sono? Sono la selva di coloro che vivono questa disciplina con continuità, a vari livelli di intensità e con obiettivi diversi. Sono il "cuore" del Parkour, perché come questo muscolo pompano sangue nell'organismo e permettono a tutto il resto d'esistere.

Le necessità sono molteplici. Chi è più orientato all'aspetto di coaching avrà la necessità di trasmettere la propria visione nel modo più efficace e possibilmente trasmettere le proprie competenze tecniche o i propri valori maturati attraverso il Parkour.

Chi è un atleta invece vorrà vedere affermata la propria abilità, avere successo in qualcosa che piace e spesso capitalizzare adeguatamente il proprio investimento di tempo ed energie (vedi competizioni ma non solo). 

Chi è prevalentemente un praticante vorrà vivere l'esperienza "pura", tenendo alto il livello di sfida, ispirando altri e immergendosi a pieno in quest'arte. Non da meno evitando che venga snaturata da forze esterne.

Tutti questi possibilmente hanno necessità di trovare o coltivare significato in ciò che fanno, molti vogliono anche nutrire una comunità, per non trovarsi soli in questo processo.

- I corsisti.

Ovvero chi popola il mondo dei corsi, delle palestre dedicate. Non solo in veste di consumatore, ma anche di formatore "non praticante". Qua la realtà, che si è sempre semplificata vedendo il corsista come "cliente" o come "discepolo" da indottrinare, diventa un po' più complessa per ciò che riguarda le necessità. Soprattutto perchè spesso si parla di adolescenti o giovani adulti. 

C'è chi fa Parkour perchè è attratto dai suoi movimenti e trova naturale l'impararli e l'eseguirli. 
C'è chi trova un ambiente sociale inclusivo per la propria tipologia di persona, una propria "tribù", magari diversa da un ambiente scolastico o lavorativo ostile. 
C'è anche chi è costretto dai genitori a fare un'attività sportiva (e la scelta ricade su qualcosa che è visto come generico e poco serio). 

Poi c'è anche chi coglie un'opportunità di crescita interiore o rivalsa verso un sè che non piace.

E ancor più raramente c'è chi ha intuito una certa preziosità nella disciplina e ne viene rapito, magari uscendo poi dalle barriere dell'attività organizzata.

Chi è invece dall'altra parte della barricata (i coach "non praticanti"), ha a sua volta diverse esigenze. Da quella più pratica del farci uno stipendio e spendere la propria formazione passata in maniera coerente, a quella più "nobile" di portare avanti un gruppo sociale "sano" per fare un servizio alla comunità.

In ambo i casi talvolta con meno conseguenze negative possibili per la propria persona (considerando la possibilità di pericolo intrinseca nel Parkour), cosa che può compromettere la trasmissione dei valori di questa disciplina.

- Gli altri.

Per prime le famiglie. Che affidano minori a estranei e a un'attività che attrae ma che sembra anche strampalata e pericolosa. 
Per le quali, passato l'eventuale timore iniziale (se i formatori sono competenti e non ci sono sfortune del caso), emergono tutte le comuni necessità genitoriali: avere un ambiente sano per i propri figli, privo di bullismo e discriminazione. Un'ora dove questi si "sfoghino", facendo l'attività motoria minima per riequilibrare la sedentarietà straripante. Per i genitori più progressisti anche un luogo dove questi possano farsi male e imparare attitudini utili alla vita, per quelli più conservatori magari un'occasione per il figlio ipercinetico di diventare una stella emergente di un "nuovo" sport.

Tutti più o meno benevolenti ma che hanno una necessità fondamentale non scritta: che tu non causi alcun danno permanente o fatale alla loro prole. 

Stessa visione comune per ciò che riguarda associazioni, gestori d'impianti e talvolta comuni (se collaborano attivamente), che non vogliono essere trascinati in cause legali, bensì vedere il proprio investimentimento di spazi e denaro in quello che sembra essere un trend giovanile ritornare con pubblicità positiva, raggiungimento di obiettivi sociali (vedi politiche giovanili), generare discrete entrate monetarie o banalmente aiutare a coprire le spese per i sempre più costosi impianti.


Questa è quella che per me è una panoramica importante delle necessità che compongono questo mondo, a suo modo superficiale perchè si potrebbe scavare in ognuna di queste categorie e andare più nel profondo e trovarne di nuove. Non lo farò (non ora probabilmente neanche in futuro), perchè già questo dovrebbe aiutare nel vedere con un punto di vista un po' più ampio come il Parkour sia vissuto e affrontato da chi lo affolla.

Dove mi colloco infine io, alla luce di questi 11 anni di coaching?

Direi molto nel coach praticante, un po' nel formatore "corsista" e molto meno nel praticante "puro". Non nego che, sebbene ora il mio lavoro principale sia altro, l'insegnare Parkour sia una fonte di reddito utile al mio sostentamento e che in parte questo risponda alla mia necessità di "viverci". 

Però continuo anche a credere nel valore formativo di ciò che insegno, sopra il guadagno e talvolta la necessità di ridurre al minimo le conseguenze negative per la mia persona. La mia visione di disciplina è sicuramente cambiata e quindi anche il mondo di insegnarla (talvolta in totale opposizione a certi purismi passati). Ha abbracciato il punto di vista delle PERSONE e ha dovuto fare alcuni passi indietro, cosa che riconosco essere un rischio perchè può far perdere la bussola a sè stessi. Però è rimasta coerente a quelli che sono i valori che ho vissuto come spontanei e positivi nella mia esperienza personale.

Se mi guardassi ora con un certo filtro passato (alcuni scritti di Gato, certi dettami ADAPT, dell'ADD o purismi generici), probabilmente sarei un coach mediocre. Non spingo le persone a cui insegno ai limiti di fatica ogni sessione. Non partecipo quasi più attivamente alla loro "sofferenza". Non le indottrino su un certo modo di praticare "giusto" o "sbagliato" (al massimo le educo). 

Mi vedo invece essere guida di gruppi coesi, dove c'è un'atmosfera rilassata e inclusiva. Dove quasi nessuno si rifiuta di mettersi in gioco e di affrontare sè stesso. Dove c'è lo scherzo e la presa in giro (anche verso il coach), ma non con la volontà di schernire, sminuire o insultare. Dove le persone vengono volentieri per imparare, spingere, ma anche rilassarsi, stare in compagnia e non sentirsi giudicate se non sono il top. Persone che molto probabilmente non diventeranno le future generazioni di praticanti guardiani della disiciplina, ma che stanno bene e son felici. E questo è fonte di soddisfazione.

Alcune di queste cose hanno forte risonanza anche con le mie esigenze attuali da praticante. Il Parkour non ha smesso di essere un'arte, ma io ho smesso di essere severo con me stesso per non essere un bravo artista. È diventato uno strumento dalle performance sicuramente più modeste che in passato, ma sempre utile come connessione all'ambiente, alle persone che sento "tribù, e al mio io più profondo che vuole ancora muoversi ed esplorare come un bambino.

lunedì 2 settembre 2024

Parkour: dove siamo oggi

Come alcuni di voi sapranno, nell'ultimo paio d'anni sono stato lontano dal Parkour. Non dall'insegnamento (che in grande parte è la mia professione), né dall'allenamento in generale, bensì dall'esercizio specifico e assiduo di quest'arte e dal viverne a pieno la pratica con tutti i suoi aspetti.

Una distanza mentale più che geografica, se vogliamo dire.

In parte alimentata dall'approccio al Brazilian Jiu Jitsu, cosa che mi ha permesso di maturare più conoscenza di un aspetto finora a me quasi totalmente sconosciuto: quello delle dinamiche agonistiche della stragrande maggioranza degli sport, con le federazioni, i diversi campionati e le relative conflittualità interne. Ultimamente proprio questo fattore mi ha fatto riflettere sulla situazione attuale della nostra disciplina.

La lontananza che ho sperimentato mi ha reso un osservatore, meno coinvolto dalle dinamiche in gioco e forse più libero che mai da bias a riguardo. Proprio sulla base di queste osservazioni (pur sapendo che comunque il mio è un punto di vista parziale, legato alla mia percezione e non a dati oggettivi) voglio fare qualche considerazione che cercherà di dare un panorama più distaccato possibile di come vedo la nostra disciplina adesso. O dovrei dire sport.

Sport proprio perché la fase che stiamo vivendo (in Italia ma già da ben prima in buona parte del mondo) è puramente quella sportiva, di evoluzione massima dell’aspetto tecnico e sensazionalista legato a questo.

Raduno gopk estate 2010

Le comunità che posso distinguere della nostra area di movimento attualmente sono 3:

- quella dell’Art Du Déplacement, con un’identità decisa e finalmente distaccata dalla sorella più famosa. Ancora prevalentemente legata alla figura degli Yamakasi, sebbene si inizino a intravederne con più insistenza gli eredi. Verosimilmente improntata a promuoversi nel futuro con una struttura simile alle arti marziali e un'ottica più tradizionale, un po' come accade in alcune Gracie Academy nel BJJ.

- quella del Parkour, giovane se non molto giovane, a sua volta divisa in diverse realtà ma tutte fortemente sport oriented e quindi con una spiccata componente competitiva. Legata a grandi palestre ma non solo, numericamente importante e con un discreto ricambio generazionale, spesso "usa e getta".

- quella della “terra di mezzo”, anagraficamente sempre più vecchia, legata perlopiù ai vari corsi di avviamento alla pratica e che si trova ancora e metà tra i due confini sempre più netti. Legata un po’ all’una e un po’ all’altra parte ma senza particolare propensione per una delle due, sebbene si autoidentifichi più di frequente come "Parkour", pur non disdegnando "Movement culture" come alternativa.
 
Una comunità molto a rischio scomparsa, per il fondamentale non allineamento a uno dei due poli, nonchè per la propria età e lo scarso ricambio generazionale (salvo qualche raro intraprendente autodidatta o qualche ancor più raro corsista curioso di oltrepassare la “soglia”). Sorprendentemente però potrebbe mantenere una fiammella accesa nel tempo grazie all'azione di pochi e tenaci individui, resistendo alla polarizzazione in atto.

Non credo invece esista più una comunità di Freerunning, a tutti gli effetti assorbita dal Parkour. Al giorno d'oggi freerunner pare essere un termine desueto, perlopiù usato per designare qualche vegliardo leggendario dal punto di vista della performance.

Jam Krap / Gopk Padova 2009

Nello specifico non mi soffermerò ad approfondire alcuna di queste comunità, ad eccezione di quella del Parkour (come da titolo del post), alla quale, in quanto hobbit della terra di mezzo, NON appartengo.

Qual è dunque la mia percezione della comunità del Parkour?

Quella di una comunità da due diverse sfaccettature, in qualche modo simile a com'è sempre stato fin da quando ho iniziato, ma con valori e intenzioni diverse.

Una più "pura", legata all'outdoor (pur non disdegnando gli spot al chiuso), allo spingere l'aspetto di movimento oltre i confini attuali, settando nuove pietre miliari e standard, senza rinunciare all'esplorazione e alla creatività in relazione all'ambiente d'allenamento. Per quel poco che conosco la comunità degli skaters, apparentemente l'utilizzo degli spazi, i valori e le intenzioni sembrano essere più vicini culturalmente a questo mondo anzichè ad alcuna comunità originale di Parkour.

L'altra più "gym oriented", legata all'allenamento al chiuso o su strutture, ugualmente interessata a spingere i confini ma prevalentemente dal punto di vista acrobatico e inevitabilmente vicina alle competizioni FIG, se non ai diversi contest nel quale si ritrova spesso anche l'altro gruppo.

Notare che i confini tra queste due sfaccettature sono molto labili e che molti si trovano a cavallo tra queste, tuttavia la coesione sociale pare maggiore che in passato, in quanto unita dall'ammirazione assoluta per la performance di una certa entità.

Jam Krap / Gopk Padova 2009

Gli aspetti che identifico come positivi (o presunti tali) di questa comunità attuale sono:

- buona coesione sociale e inclusività
- minore ottica di pregiudizio tra le varie identità
- abbastanza ancorata alla visione outdoor
- tecnicamente qualitativa (sebbene spesso molto selettiva)

Quelli critici:

- problemi con il rispetto degli spazi d'allenamento e l'utilizzo degradato degli stessi (cosa vista purtroppo troppo di frequente con i propri occhi). Si salvano i gruppi più istituzionalizzati che fungono un po' da educatori a riguardo
- scarsa durevolezza del praticante medio (salvo selezione naturale)
- molto più al limite sull'aspetto di rapporto autoconservazione/performance
- vicinanza a dipendenze di varia natura
- prestigio sociale basato quasi solo sul risultato e sui "send" fatti
- senza un vero scopo al di fuori della performance e dell'eventuale ricerca del successo tramite questa
- troppa passività o praticanti "di contorno", spesso di solo pubblico ai forti

jam Padova 2019?

Cosa ci riserva il futuro?

Le ipotesi sono sempre un po' azzardate. La presenza come in ogni movimento di una corrente "conservatrice" e di una "progressista" porterà a nuove evoluzioni? O siamo arrivati alla fase di sedimentazione oltre la quale l'assenza di scontro, ma anche di una struttura sportiva tradizionale, farà propendere verso l'assoluta nicchia (un po' come Breakdance e Skate)? La nascita di futuri social media segnerà nuove direzioni come sempre stato finora?

Oppure sarà il rifiorire improvviso della "terra di mezzo" come effettiva comunità di Parkour, magari arricchita da tutti quei praticanti appassionati che saranno a loro volta diventati "vecchi"?

giovedì 20 luglio 2023

LASCIARE ANDARE

In questi giorni volevo riprendere in mano questo blog e in verità scrivere cose di cui forse scriverò in futuro. Assecondo invece l’ispirazione del momento e butto giù un paio di riflessioni maturate in queste giornate torride e notti insonni. Notare bene che cercherò di essere meno prolisso possibile; non ho più tempo per quello stile descrittivo che mi richiede infinite revisioni e che di base non mi piace più.

Ho buttato un occhio al passato in questi giorni e ho visto una persona quasi sempre in conflitto e sofferente, incapace di trovare quiete su un po' tutti i fronti. Ora su alcune cose (non tutte) quella pace l'ho maturata, ma non è stato un processo semplice, né immediato. Forse è stato fisiologico dell'invecchiare, ma credo perlopiù dettato dalla forte volontà di non stare ancora male con sé stessi e con il mondo.

La zavorra del mio malessere vedo ora essere stata la mia unicità: i miei traumi, i miei desideri, il mio orgoglio, la mia storia, persino il mio nome! E in parte anche quella pratica che ad un certo punto ha iniziato a voler essere espressione di quella unicità e della mia separazione dal mondo.

Per inciso, non c'è niente male di questo. Nel non voler essere omologati, banali, megafoni costanti degli altri e censori delle proprie idee. Ognuno di noi dovrebbe coltivare quell'individualità di pensieri e passioni che ci rendono Cittadini di questo mondo e non cloni. Ma c'è un prezzo del coltivare troppo quell'individualità, nello stare ancorati ai propri traumi e ad un Io che è vecchio e vuole mutare. E quel prezzo è la sofferenza.

Io ho lasciato andare. Il peso forse era troppo e non ho più voluto sostenerlo. Una parte dei miei desideri li ho lasciati andare. Ho mantenuto la direzione acquisita negli anni e insisterò ancora su questa, ma con obiettivi più accessibili e meno volatili. E se non funzionerà, lascerò andare anche questi.

Una parte della mia pratica l'ho lasciata andare, forse a favore di maggiore banalità e debolezza, ma con un po' più di sollievo.

Lascio andare ogni giorno anche in ciò che non rispecchia a pieno il mio Io; senza però essere accondiscendente, né negando la mia identità e quei paletti che sono assoluti nella mia vita.

Rimangono i dolori, le preoccupazioni monetarie, le ansie per il futuro, il peso degli obiettivi. L'insofferenza per come funziona il mondo. Però le mie relazioni sono stabili e serene.
Ho lottato per queste relazioni e ho avuto anche fortuna, ma dubito che se fossi ancora la persona di 5-10 anni fa le cose funzionerebbero così bene.

Certo, c'è l'amarezza di aver abbandonato qualcosa che era fonte di ispirazione assoluta, ma non voglio più mascherare una sostanziale volontà di isolarmi con la pretesa di ascetismo.

E in fin dei conti, anche volendosi fermare del tutto, è stato un viaggio che ha valso la pena di fare fin qua.



venerdì 2 dicembre 2022

Fuori dal comfort

Uscire volontariamente da quelle aree di relativa comodità e sicurezza che ci ritagliamo nelle nostre vite, è uno di quei principi-cardine che contraddistinguono la pratica del Parkour (e suppongo anche dell'Art Du Déplacement) e che paiono essere condivisi da più o meno tutti indipendentemente dalle fazioni.

Il potere di crescita di queste situazioni è indiscutibile e per anni la mia ambizione generale è stata quella di maturare abitudine e forza in quest'aspetto per poterlo trasferire agli altri ambiti della mia vita.

Tralasciando ulteriori riflessioni più o meno scontate a tal proposito, vorrei piuttosto parlare di mie "recenti" esperienze che riguardano l'approccio alla più giovane "Parkour community" italiana, la quale (tralasciando quella dei corsi) è numerosa e apparentemente nel pieno boom. Premetto che le considerazioni che farò sono frutto di speculazioni e percezioni personali, che possono essere più o meno distorte dai contesti che ho vissuto, soprattutto dall'aver a lungo praticato il Parkour come una disciplina fortemente introspettiva.

La comunità alla quale mi riferisco è quella più sportiva e orientata alla performance, che è sempre esistita e alla quale mi sono sempre interfacciato fin dai primi anni di allenamento. Una comunità che, parallelamente alla mia persona e alla mia realtà, ho visto invecchiare e perdere numerosi pezzi e giovani promesse... Salvo rigenerarsi con vigore nel tempo, mantenendo al nucleo un manipolo di "anziani" (spesso non anagraficamente), e alla base una moltitudine di giovani praticanti, o per meglio dire atleti.

Faccio questa doverosa distinzione di cui ho già parlato, ma non soffermandomi tanto sugli aspetti specifici che riguardano questi termini, ma sull'intenzione dei singoli. Perché è evidente che, tralasciando l'aspetto di gioco e divertimento, in molti si veda la voglia di dimostrare come ci fosse un'aspettativa molto elevata a circondare il tutto. Una pressione del tutto particolare, che io ho percepito solo in poche altre situazioni e che non esito a definire agonistica.

Come detto non sono nuovo a contesti del genere. Ho aiutato nell'organizzazione di eventi borderline come il NEXT Adventure nel 2015, in tal senso guidati da intenti unificatori e pacificatori delle varie realtà/filosofie. Ho visto dal vicino la crescita di atleti di fama mondiale, venendo collateralmente esposto a molti esponenti dell'ambito sportivo del Parkour. Io stesso mi definisco borderline tra le varie realtà e a livello di pratica personale, pur avendo deciso di dare più peso all'idea di disciplina interiore che di sola disciplina sportiva (senza togliere nulla a quest'aspetto, eh).

Non essendo nuovo a queste situazioni, cosa fa la differenza per me? Il numero e le proporzioni. Se nelle mie passate esperienze le varie attitudini alla pratica (ed età) potevano essere presenti in maniera più o meno equilibrata nello stesso spazio, in contesti come quest'ultimo della "birthday jam" di Jaco invece la presenza di così tanti giovani atleti e di un manipolo di praticanti tendenzialmente poco più anziani (eravamo in 2-3 i "nonni" della situa), ha invertito totalmente le proporzioni alle quali sono da sempre abituato.

Ora ecco in ulteriore analisi all'esperienza un po' di dati:

DATI (più o meno) OGGETTIVI

- età media ad occhio 22 anni, 60-70% dei partecipanti nati dal 2000 in poi;
- grande afflusso di gente, circa 50 persone;
- di conseguenza (forse?) poco spazio per muoversi e grande senso di affollamento dello spot senza scopo preciso;
- ad occhio una persona su 6-7 di sesso femminile;
- livello, di chi si muoveva con più frequenza, alto (inteso su skills pk specifiche);
- sesso, di chi si muoveva, quasi unicamente maschile;
- comportamento tendenzialmente rispettoso dello spot e delle persone di passaggio.

Dati che si riferiscono principalmente alla mia osservazione dal momento dell'arrivo al primo spot a quando siamo stati (come prevedibile) cacciati dalle forze dell'ordine (45 min circa).

DATI SOGGETTIVI

- atmosfera da "ansia da prestazione", con bisogno di spingere e "dimostrare" e che intuivo in altri dal body language (tranne in chi era per abilità, abitudine e forza, totalmente a proprio agio), ma per molti versi non competitiva e non dissimile da altre jam di mia partecipazione;
- atmosfera che unitamente al (forse?) poco spazio ha comportato una diffusa paralisi decisionale, con molte persone che vagavano senza saper cosa fare (tralasciando il posing diffuso in più o meno tutti gli ambienti);
- "forse?" perché è la stessa situazione che ho visto l'anno scorso a Torino con più o meno lo stesso gruppo e molto più spazio per muoversi;
- sensazione personale percepita di "giudizio esterno" come quella di un'esame, con poco o nullo spazio al dialogo interiore sul perché saltare;
- sensazione di chi non partecipava attivamente di "chill out", da situazione sociale random, con una nota velata di "neanche ci provo".

Puntualizzo che questi sono dati soggettivi, ovvero di come l'ho vissuta e percepita io, e non hanno quindi valore di giudizio sui partecipanti. Non definiscono se chi partecipa attivamente a questi contesti abbia più o meno un'esperienza introspettiva rompendo salti, né se questi abbiano esperienze del genere al di fuori delle jam. Semplicemente non si può evincere dalla sola osservazione e tanto meno deve essere una nota negativa se non si insegue un tal proposito, bensì una differenza.

Le domande che sorgono, anche discutendone con altri sono:

- è un contesto di crescita adatto a un principiante "non dotato" o magari non giovane?
- un ambiente così performativo con che frequenza può essere un fattore di drop-out nel medio-lungo termine (dato per assunto che c'è drop-out in ogni sport/disciplina)?
- qual'è il background del partecipante medio? Da dove è iniziata la loro esperienza nel Parkour? Corsi o indipendente?
- qual'è il leitmotiv di questi? Passione? Divertimento? Socialità? Bisogno di emergere?
- c'è una ricerca o una riflessione verso l'interiorità del muoversi o è un elemento sconosciuto, volutamente ignorato o tuttalpiù inconsapevole?

ma soprattutto:

- perché così tanta gente non si muove?

Lascio queste domande aperte e mi soffermo invece su come ho interiorizzato l'evento. Constatata l'atmosfera ho deciso di assecondare quella chiamata alle armi della situazione fuori comfort, di fatto mettendo in discussione quel dogma che negli anni mi ha fatto associare lo spingermi verso il mio limite per pressione esterna (ossia per voler dimostrare qualcosa a qualcuno) all'infortunio. Le poche altre occasioni così simili e significative che siano degne di essere menzionate sono state quelle di entrambi gli esami fisici/tecnici che ho dato per adapt 2: di fatto delle gare.

Nel mio credo c'è la necessità di ragionare sui perché si fanno certi salti rischiosi e di conseguenza di agire in risposta al "sentirmelo"... so per certo che per tante altre persone cresciute nel mio ambito è più o meno uguale. Proprio per questo motivo un certo tipo di pratica che si identifica come "fuori comfort", spesso invece va cadere dentro un'altra zona di comfort più subdola. Per molti spingere in certi movimenti, o metterci più fatica o saltare col buio e il bagnato, paradossalmente può diventare una "bolla di sicurezza" alla quale sostanzialmente ci si è adattati, favorendo in una qualche misura lo stallo.

Dal mio punto di vista crescere vuol dire fare ciò che non ci si trova a proprio agio fare. Per un "old school" (qualsiasi cosa ciò voglia dire) può essere proprio l'allenarsi in contesti totalmente diversi da quelli abitudinari. Magari con la musica ad alto volume. O meglio ancora con il peso del dover dimostrare qualcosa a qualcuno, mettendo a tacere tutte quelle riflessioni personali che oltre una certa soglia sono verosimilmente eccessive (overthinking).

Uno dei punti di forza di chi è adattato a questa situazione, è proprio quello di sostenere certe pressioni mantenendo la propria pratica usuale con una certa naturalezza. Va da sé che spesso si tratta di giovani molto avezzi a questi contesti, se non addirittura di fuoriclasse con zone di comfort gigantesche in termini di movimento. Questo non toglie che il fattore di crescita individuale, per chi non è proprio di questa modalità e che volontariamente sceglie di esporvici, è potenzialmente enorme.

Tenendo, infine, sempre conto dei dovuti rischi che ogni processo di crescita comporta.

domenica 28 agosto 2022

Perfezione imperfetta

Mi avvicino al bordo.

Il senso di vertigine a quell'altezza è schiacciante, un periodo di digiuno dallo stare in equilibrio così in alto ne è la sicura causa. Due giorni prima, appena arrivato a Évry, mi era stato impossibile il solo mettermi in posizione di partenza per quel salto. Il primo dei tre tentativi che mi impongo viene quindi speso solo per riguadagnare confidenza con l'altezza e riuscire a stare in posizione eretta su di quello spigolo infernale.

Trascorro un tempo indefinito, forse un minuto, forse di più, a guardare contemporaneamente l'atterraggio, l'abisso e dentro di me. È un dialogo che consuma, il vento, che soffia contrario, dissuade dal prendere la decisione.
Esausto, scendo dallo spigolo e il primo tentativo è andato.

Il corpo è stanco dopo l'intensa giornata nella foresta di
Fontainebleau, ma la mente è attiva come non mai e la vista non mente: è un salto nelle mie corde! Un paio di drop e qualche salto in altezza mi aiutano a risvegliare il sistema nervoso e a prepararlo ai possibili impatti. Li limito al minimo indispensabile perché so che potrebbero solo alimentare la mia indecisione e togliermi forza... mi dedico dunque al processo più importante: quello sulla motivazione.

S
eggo in meditazione e inizio a scavare a fondo, dentro di me. Ciò che mi ero portato lassù emerge molto più superficiale di quanto credessi, i perché stanno più sotto, più a fondo e sono più primitivi di ciò che avrei pensato. A fatica tre parole emergono e sono il cavallo di battaglia che attendevo: A., C., F.!

Risalgo, questa volta la sensazione di successo è forte, ma esito qualche secondo di troppo a causa del vento contrario e il salto rincomincia a essere la solita spietata voragine d’energia. Le distanze si ingigantiscono e, in un tempo più breve del precedente, mi ritiro sconfitto. Un'ultima possibilità mi rimane, ma sono fiero di come sto affrontando la situazione: saltare o meno non fa ormai più alcuna differenza.

La tensione dei miei compagni, che stanno affrontando la mia stessa battaglia, è palpabile e pesante. Realizzo che la cosa migliore sia di sedermi
a gambe incrociate e attendere che tanto il vento quanto lo spirito si plachino. Dopo qualche minuto mi rialzo e posso udire l'elemento di disturbo del gruppo che sta salendo dalle scale, con la sua musica arrogante. Sorrido perché una tale cafoneria mi pare quasi surreale in una situazione così tesa, eppure mi aiuta a smorzare quella stessa pesantezza consumante di prima. Quasi mi scappa la risata.

Mi avvicino di nuovo al bordo, questa volta senza salire sullo spigolo a guardare il salto ancora una volta, e dopo poco, ancor più surreale, vengo spinto via dal nuovo arrivato. "Spostati, frà". E là a mimare dei tentativi di stacco in plyo o dive front. La scena è così ridicola che non mi rimane che sedermi nuovamente, divertito, in attesa del momento giusto. Il diversivo, spiacevole per i più, aiuta invece a rendere leggera la mia mente.

Dieci minuti, forse, e il vento è calmo. Mi preparo sullo spigolo e la situazione è perfetta. Sussurro "perfezione", accolgo la decisione ed entro 11 secondi sono in volo.



L'impatto è pesante, probabilmente uno dei più forti della mia vita, ma la ghiaia assorbe anche troppo il grande dislivello. Affondo e mi accartoccio lateralmente in un goffo, imperfetto, rotolamento obliquo. Mi rialzo e controllo di essere integro. Solo l'elastico dei capelli è fuori posto e l'euforia è alle stelle.

Prendo atto di aver appena compiuto uno dei salti più significativi della mia vita e dopo poco scendo. Il benessere è forte, ma poi le giornate sciacquano quella sensazione... la felicità si è sedimentata a fondo, dove i miei occhi non possono scorgerla chiaramente? O è stata anche questa solo un'illusione del momento?



domenica 22 maggio 2022

Paura pt. 2

Sono passati 11 anni da questo post sulla paura, che mi ritrovo ora a leggere assieme ad altro vecchio materiale. Fondamentalmente stupendomi di tutto ciò che è successo in questo arco di tempo così breve e così lungo, denso di avventure, delusioni, speranze e cambiamenti. Ancora qua, ancora in piedi, a dispetto di tutte le volte che mi son dato per vinto e ora nella piena Estate della mia vita.

Un ragazzo forse ancora, ma anche un uomo che ha preso decisioni, scontrandosi con tutte le conseguenze del caso, che ha saputo saltare quand'era ora di farlo. Talvolta senza aspettare un comodo atterraggio, ben pianificato, controllato e sicuro; perlopiù sbagliando, facendosi male e correggendo il tiro di volta in volta.

E ora mi trovo di nuovo attanagliato dalla paura. Una paura totalmente nuova, che è in costante evoluzione e mi tiene sulle spine e non credevo di poter sentire così forte. Prima la paura di arrivare troppo tardi, di non aver agito subito quando avrei dovuto. Adesso la paura dell'illusione, di una magia che si possa interrompere bruscamente al primo contatto.

Come un bimbo incantato per la prima volta davanti una bolla di sapone, che allunga la mano facendola scoppiare, lasciandolo triste e deluso. La paura che quel sole che sento brillare nella pancia si spenga, dopodiché solo silenzio, il buio freddo dell'abbandono.

Che inaspettata avventura è la vita.


martedì 19 aprile 2022

Fenice dello Statuto

Perché faccio questo? Ho 34 anni, la mia priorità è raggiungere la stabilità economica. Costruirmi un futuro solido. Non diventare un potenziale invalido.

Saltare perché? Per l'atto puerile di dover dimostrare che sono in città e spacco? È valido come motivo per prendermi certi rischi in questo momento della mia vita? Lo è in un qualsiasi altro momento, di fronte alla pesantezza delle possibili conseguenze?

Eppure quando sali e tutte le tue paure ti assalgono, diventando sempre più pressanti man mano che sei esposto al vuoto, la battaglia interna che affronti è una delle più terribili e sadicamente allettanti di sempre. Ti domandi da cosa vuoi essere guidato nelle tue azioni: dalla paura? Dalla speranza? Poi forse ti si apre uno spiraglio di chiarezza, e forse poi con questa la decisione, e poi forse vai.

Niente di più lontano dal gesto suicida: questa è pura celebrazione della vita, del voler esistere e del voler sopravvivere. E se proprio deve esserci il suicidio, sarà quello metaforico dell'uccidere, con il salto, il vecchio se stesso, per rinascere con fiamma che risplende dentro giovane e rinvigorita.