sabato 6 febbraio 2021

Parkour Therapy? - Una guida: Parte II

Precede: Depressione & Parkour e Parkour Therapy? - Una guida: Parte I


L'INFLUENZA NEGATIVA DEL PARKOUR SULLA DEPRESSIONE

 

- Ossessione per la performance

Quando accettiamo nella nostra vita la sfida di un qualcosa che deve produrre un certo risultato tangibile, è inevitabile che ci troveremo a confrontarci con una serie di aspetti sgradevoli.
Aspettative non ripagate, confronto con gli altri, dubbio verso la nostra costanza e le nostre capacità. Nella visione per estremi di chi fa dell'atleticismo e del risultato il centro della propria pratica, si dovrà inevitabilmente imparare a gestire tutti questi aspetti senza esserne sopraffatti, pena plausibile l'arrendersi.

Riuscire in qualcosa per me è sempre stato di vitale importanza. Allo stesso tempo il desiderio di sbloccare salti di continuo, dell'inseguire un'ideale di pratica pura ed estrema, si è più volte presentato come una tentazione così grande da prendere il sopravvento su qualsiasi altro aspetto del Parkour.

Questo ovviamente mi ha portato a sbattere - più volte - la testa di fronte al
la realtà che la mutevolezza delle varie condizioni (fisiche, psicologiche, ambientali) che sono terreno per uno stato atletico ottimale, non sempre rendono la performance lo specchio più affidabile del nostro progredire come persone e del sentirci bene e in pace con noi stessi.

Riconosciuto questo enorme limite dell'ossessività per il risultato ho deciso quindi di toglierle quella posizione centrale nella mia pratica. Pur non negandole quel ruolo fondamentale che possiede, in una disciplina fisica alla cui base sta l'idea di crescita.

Mi prefiggo piuttosto di perseguire questo elemento con onestà, e la consapevolezza che non possiamo essere forti su tutto, né tutti campioni. Specie se siamo tra coloro che possono dedicarci un tempo limitato.
C
erco anche di tenere a mente che perdermi in un nugolo di obiettivi confusionari e spesso non propri, non sempre giova all'autostima... semmai lascia l'idea sgradevole di un pugno di mosche in mano.

Ciò che facciamo deve possedere la capacità di auto-ispirarci e darci la chiara sensazione che, anche di poco, stiamo crescendo. Deve diventare lo specchio in grado di restituirci l'immagine di noi più vera possibile (non quella narcisistica dei social o delle nostre aspettative), con la quale confrontarci in tutti gli aspetti in cui siamo maturati e in un arco di tempo molto più lungo del semplice quotidiano.

- Fuori comfort prolungato

Per chi come me è cresciuto nel dogma del test costante, in cui una cosa la sai fare veramente solo se la sai fare in ogni condizione, la sfida con la paura e il limite diventa componente di ogni allenamento e suprema chiave di crescita. Altrettanto facilmente, come per la performance, anche questo dogma rischia di dominarci, facendoci perdere quel processo complicato che è il dialogo con noi stessi.


Lavorare frequentemente fuori comfort, con
elevati volumi ed alte intensità (emotive oltre che meccaniche), è causa di un livello di stress generale considerevolmente alto, specie se siamo in quella fase della vita in cui non abbiamo la giovane ferocia dalla nostra e di contro maggiore esperienza dell'errore e di un corpo "vissuto".

L'approcciarmi costantemente
al mettersi in situazione di test, ignorando il dialogo interiore, ha nutrito nel tempo un effetto opposto a quello ricercato... arrivando ad essermi causa di stanchezza e agitazione anche nell'affacciarmi a situazioni "mentali" già affrontate. Oltre che rendendomi tendenzialmente più teso e nervoso in vari momenti della giornata, senza apparente motivo*.

Cosa, questa, della quale ho preso coscienza solo negli ultimi anni, in parte imputata ai vari mutamenti fisiologici dell'essere più vecchio e meno "duro".
Riguardando, però, all'insieme della mia esperienza
con oggettività, questa situazione si rivela essere sempre stata in varie misure una costante, da me spesso fraintesa come il processo vero e proprio. In effetti parte integrante della ricerca del proprio limite, ma anche frutto dell'inesperienza nell'autoregolarsi e dell'ambizione selvaggia.

Il perpetrare ostinatamente questa logica del test, non mi ha risparmiato di trovarmi sia in situazioni di infortunio che di inaspettato overtraining**, anche a poca distanza da un periodo di scarico, con un evidente peggioramento della performance ed, al suo culmine,
in occasionali ed allarmanti tachicardie all'ostinato tentativo di "spingere".

In questa condizione il sistema nervoso non ha fatto che risentirne. In un clima generale di affaticamento e di difficoltà varie, si è stabilito un loop alternante
di brevi periodi di energica iperattività ad altri di indolenza, sconforto ed autosvilimento, senza un sostanziale e lineare miglioramento in alcuna direzione, bensì con la comparsa di vari stati depressivi di ritorno.

Alla luce di questo, preciso che il mio non è un invito a non testarsi, anzi. Continuo a credere che l'uscire fuori comfort, quanto il lavorare sulla performance, possegga un ruolo di primo piano nella pratica e sia la chiave principale per poter crescere e superarsi. Credo an
che che questo processo talvolta vada portato oltre il consueto.

Tutto ciò però non deve avvenire senza un sincero ascolto di sé e l'essere contestualizzato (
senza scuse) a come ci sentiamo e a quanto siamo allenati, per poi essere porzionato nella giusta misura - ed infine integrato - nel nostro allenamento.

In sintesi, se c'è una certa assiduità nel nostro modo di allenarci o il fattore determinante di una vita già di per sé intensa e stressante, l'uscire fuori comfort è un parametro che non dovrebbe essere lasciato totalmente al caso o all'ostinazione... bensì ad un accurato ascolto di noi stessi e dei nostri bisogni reali.

I quali non escludono la nostra volontà di maturare un'attitudine coraggiosa e forte, ma rendono il nostro lavoro consapevole e misurato: meno causa possibile di stallo e malessere, più utile ad una nostra crescita felice e sostenibile.

*ovviamente ciò non può essere imputabile a questo solo fattore, soprattutto se già c'è una base di generale tensione psichica. È comunque una correlazione che ho stabilito empiricamente avendone notato la prossimità con periodi di forte allenamento e lavoro fuori comfort.
** che in verità é overreaching non funzionale, sebbene erroneamente identificato con l'overtraining


Infortuni

Sappiamo tutti che mediamente il Parkour praticato come disciplina ha statisticamente una bassissima casistica di infortuni gravi. Per chi invece persegue la disciplina come sport finalizzato all'agonismo e unicamente alla performance, il discorso può essere ben diverso.

Come citato in precedenza, l'ossessione per la performance o per l'attitudine ad ogni costo, è una forte spinta verso la depressione, specie quando il prezzo è l'irreparabilità di un danno.

Allo stesso tempo ognuno di noi, do o jutsu che sia, ha nella sua esperienza distorsioni, stiramenti, infiammazioni croniche ed altre amenità che rendono spesso la nostra pratica un continuo, sofferente adattamento e che soprattutto ci danno consapevolezza di una certa inevitabilità dell'infortunio stesso. Questo ci obbliga a sviluppare un certo dialogo e rapporto con il dolore che diventa fondamentale per un sereno proseguo nella disciplina.

È idealistico, pensare di vivere in un mondo in cui non troveremo il dolore ad attenderci da qualche parte, sebbene la nostra società, demonizzante di tutti quegli aspetti negativi intrinsechi alla vita stessa, voglia farci credere il contrario.

Sapere accettare (entro una certa misura) la presenza di dolore nella nostra vita è una abilità di spicco per la nostra sopravvivenza. Imparare a sbagliare, farsi male e ricostruire anche decine di volte, fronteggiando sempre di più in maniera positiva l'avversità è infine  resilienza nella sua forma più pura.

Questo però è un processo che, anche senza ricercare sfacciatamente il danno, paradossalmente ci porterà a sostare in un temporaneo stato di malessere psicofisico che, finchè non affrontato fino ad una sua risoluzione positiva, non gioverà di certo alla nostra autostima e pace interiore.

Questo degli infortuni e del rapporto col dolore, è infine un argomento complesso, tra i più significativi nella storia individuale di ognuno di noi (che pratichi Parkour o meno).
Per la quantità enorme di aspetti di cui discuterne, è mio desiderio approfondirlo con un futuro post dedicato.



- Abuso di libertà

La libertà, nel Parkour, è uno degli elementi più amati e spesso fraintesi da chi pratica. Gli abusi vari che ne derivano possono portare alle situazioni più al limite e controverse che aleggiano sopra la nostra immagine pubblica, con tutte le ripercussioni del caso.

Tra tutte le forme "degenerate" di questa condizione restringerò il campo, riallacciandomi ad uno degli argomenti del post precedente, andando nello specifico a parlare di quella condizione di abuso di libertà che deriva dalla forte mancanza di autodisciplina.


Nella mia esperienza personale, la disciplina nell'allenamento ha avuto un ruolo importante fin dall'inizio. Lo svolgimento meccanico di un allenamento
strutturato ha avuto sempre più come scopo quello di "educarmi" che la funzionalità stessa dell'allenamento.

Negli anni, avendo maturato allergia alle strutture (per l'esercizio costante di queste attraverso il coaching), volendo mettere in discussione i vecchi dogmi e subendo l'influenza sfiancante del flagello degli infortuni, questa capacità di autodisciplinarsi è talvolta venuta meno: più incostante e confusionaria, a volte produttiva, a volte dannosa.

Non fraintendetemi, do grande valore alla libertà nell'allenamento:
All'affinamento delle sensazioni, dell'esplorazione e della capacità di farsi guidare istintivamente verso le sfide giuste per noi.
Non potrei altrimenti considerare come bello e vitale ciò che pratico senza questo aspetto ricorrente di "mancanza di piani".

L'autodisciplina non nega la libertà, ne sancisce un limite.

Ci sono volte che mi trovo a confrontarmi col fatto che, perseguendo una pratica basata unicamente sull’istintività e sull’ispirazione,
senza piani né struttura, potenzialmente potrei trovare la realizzazione massima di me come persona in movimento.

Allo stesso tempo, una persona deve essere onesta con sé stessa per capire di cosa necessita e che lavoro deve fare sulla propria persona, oltre che sul proprio corpo.
Per me l'autodisciplina è il tenere lontano quella "
sensazione di buttare la vita e il tempo in seno alla pigrizia" che "è carbone nella caldaia della depressione", come citato nello scorso capitolo.

Ma il ruolo più grande esercitato da questa pratica (al di fuori dell'aiutarmi a correggere i miei comportamenti autolesivi) è quello di continuare a nutrire significato per ciò che faccio, attraverso tutti i suoi riti che sanciscono un impegno costante ed inderogabile, base per la fiducia di sé e di un cambiamento monitorabile.

Perché la perdita di significato di un qualcosa di prezioso è ciò che temo di più, nel suo subdolo nascondere il nulla più buio.

L'esercizio della libertà pura è quindi una vetta utopica alla quale ambisco dopo aver portato la disciplina al suo miglior compimento per la mia persona.
Altrimenti temo il pericolo della vaghezza, che la libertà spesso porta con se, nella quale è facile perdersi nell’inconcludenza e nel non riuscire a direzionare la propria vita con decisione.


- Rischio di auto-emarginazione

Che sia da soli o con le proprie cerchie, la pratica è una gabbia dorata, una bolla di benessere nella quale ricerchiamo bei momenti e serenità, se non la grande soddisfazione dello spingere oltre i propri limiti.

Come ogni gabbia dorata, il Parkour possiede la capacità temporanea di isolarci dalla realtà. Se la nostra pratica è occasionale, questa possibilità non può che esercitare una funzione positiva, ma se siamo totalmente immersi in questo terreno e il nostro comfort di pratica è
in solitario o con pochi compagni, il rischio è di perdere una solida presa sulla realtà e di alienarci dal resto del mondo. 

La figura del praticante solitario, che popola gli spazi urbani in maniera completamente diversa dal resto dell'umanità, è un immagine indubbiamente affascinante a molti pionieri e non solo.
Scarpe devastate, che portano le cicatrici di mille muri, pantaloni consunti e bucati, graffi sulle braccia sono le medaglie con le quali molti di noi valutano il proprio essere "true".
Per buona parte di noi è solamente questione di praticità, anziché dell'ostentare un’attitudine: non ci si può permettere materiale sempre nuovo e vestiti pregiati che inevitabilmente, nel giro di pochi allenamenti, si finiranno per danneggiare.

Tuttavia l'immagine che per noi risulta ideale non sempre ci viene restituita da quello specchio, che spesso è la società, come "vincente". Anzi.

Nel qual momento iniziassimo ad identificare il nostro io praticante con tutta la nostra vita, il rischio di scivolare nell'ottica di trasandatezza ed isolamento del "lupo solitario" inevitabilmente prima o poi, in base ad un mutamento della nostra percezione, potrebbe diventare un pesante macigno sulle nostre spalle.
A meno che, ovviamente, non siamo coscientemente seguaci di Diogene "il pazzo".

Rifiutare l'aspetto di relazione con gli altri (che siano praticanti o la società che ci circonda) significa chiudersi al confronto ed isolarsi sempre di più nella propria "bolla" che rifiuta la realtà.
Aprirsi allo stesso tempo ha il costo di sacrificio di una parte della nostra individualità alla quale siamo faticosamente arrivati nella ricerca di noi stessi: è il paradosso del doversi conformare agli altri per continuare a nutrire la propria crescita!

Come ogni altro aspetto della vita, anche questo processo di integrazione necessita di sforzi, specie nel dover venire a patti con persone con le quali abbiamo poche affinità di obiettivi. Cosa che può succedere riconoscendo quei punti comuni che possano creare un terreno di scambio e condivisione, senza per forza dover cadere nel conformismo becero e spersonalizzante che non insegna alle persone la diversità.

Ma facendo di alcuni aspetti sociali basilari come la cura di sé e del senso di comunità, altro grande strumento per imparare a volersi bene.



Segue: Parkour Therapy Parte III - Le pratiche complementari


lunedì 25 gennaio 2021

Parkour Therapy? - Una guida: Parte I

Questo post segue il precedente "Depressione & Parkour", nel quale c'eravamo lasciati con la promessa di un'analisi sul ruolo che il Parkour/Add/Freerun (o come lo volete chiamare) ha esercitato in merito alla mia afflizione di quella piaga moderna che è la depressione.

S
ono numerosi gli aspetti di questa disciplina che hanno determinato una valenza sia terapeutica che traumatica nei confronti di questo disturbo, per questo motivo e per facilitare la lettura cercherò quindi di dividerli in semplici categorie, spalmate su più post.

Non solo del ruolo attivo del Parkour verso al depressione parlerò, ma anche di quelle pratiche complementari (alle quali sono arrivato
più o meno grazie ad esso) che sono parte a tutti gli effetti del mio concetto olistico di "Pratica".

Per quanto ciò che scriverò si presenti come una guida, in verità
si tratta di un'analisi basata unicamente sulla mia esperienza personale, l’auto-indagine e l'osservazione altrui, di ciò che prima di tutto ho riconosciuto in me.
Come la maggior parte di ciò che scrivo non ha pretesa di valenza "scientifica", non c'è un vero e proprio metodo applicato, piuttosto si propone di gettare dei semi che idealmente faranno germogliare riflessioni volte ad arricchire le pratiche individuali del Parkour, mettendone in luce sempre più gli aspetti nascosti.
 

È inoltre doveroso premettere a chiunque ne ricerchi una qualche utilità, una cosa molto importante: SE la vostra vita è fortemente disordinata, SE vi perdete in abusi, SE avete un problema di maggiore entità, causa dello stato di malessere del quale soffrite, allora sapete che avete qualcosa di prioritario da mettere un minimo a posto, prima di poter trarre un qualche guadagno da ciò che descrivo.

Per cui sicuramente la pratica di uno sport/disciplina/arte vi può essere utile ed ispirante, ma facilmente può diventare un gioco nel quale nascondere voi stessi dai vostri problemi, e alla peggio divenire causa di ulteriori malesseri.


COME IL PARKOUR PUÒ ESSERE TERAPEUTICO PER LA DEPRESSIONE

- Acquisire valore di sé

 Il Parkour, come anche la pratica di una qualsiasi arte o disciplina sportiva, ha alla base una grande opera di fiducia verso sé stessi. Affrontare le avversità, ovvero ciò che ci risulta difficile - che sia una tecnica, una sfida od una condizione sfavorevole - porta nel tempo a modellare la considerazione di noi stessi in positivo.
Questo a patto che ci sia sempre chiaro da dove siamo partiti e che la nostra crescita sia allo stesso tempo sia in miglioramento quanto sostenibile.


Tra tutti gli elementi che concorrono a questa crescita quello che più mi sento di indicare come fondamentale è la costanza.
Questa non è solo una delle basi del concetto di disciplina, di cui parlerò in seguito, ma anche il terreno di gioco sul quale possiamo misurare il nostro progresso individuale.
Senza costanza difficilmente potremo avere un parametro di riferimento del lavoro che stiamo facendo su di noi!


Sempre con onestà, in base al tempo e alle energie che possiamo dedicare all'arte in cui abbiamo deciso di metterci alla prova, decidiamo quali obiettivi perseguire e quelle ore, anche poche, che diventeranno un impegno inderogabile nella nostra settimana.

 

- Acquisire un obiettivo

Da adolescente depresso e carico di un cinismo nichilista, l'aver scovato un obbiettivo ispirante, una direzione di vita è stata la grande illuminazione, il simbolo che il mio essere in verità desiderava vivere!
Non è facile capire cosa mi abbia portato, dopo aver scartato o perseguito con poca convinzione altre attività nelle quali risultavo più talentuoso, ad abbracciare un qualcosa che non mi apparteneva: la vita da sportivo, l'abilità motoria, una disciplina di strada.

Dietro a questa scelta credo di aver individuato la sostanziale voglia di cambiamento, di sacrificare un'identità vecchia e pesante, contaminata da un carico inutile di sofferenza ed amarezza. Un processo, questo, già timidamente iniziato pochi mesi prima dal mio esordio nel Parkour.

Ma non solo il cambiamento, anche la novità e la possibilità di esplorare un terreno incontaminato del quale sentirsi moderno pioniere, mi hanno guidato verso il desiderio di erigere questa disciplina ad obbiettivo di vita.

Da quel momento ad ora, si sono succeduti molti obbiettivi collaterali, alcuni perseguiti con successo, altri abbandonati nelle nebbie del tempo speso nella pratica, per la pratica.
Gli obbiettivi stessi talvolta sono stati fonte di malessere, per il loro carico emotivo di stress, insoddisfazione, frustrazione; la perdita di significato, di una cosa ritenuta preziosa, sempre  pericolosamente in agguato dietro l'angolo.


Dare ora forza a quella grande ispirazione che è stata l'inizio di tutto, è sicuramente molto più complesso ed impegnativo che nella giovinezza e talvolta richiede di doversi faticosamente concentrare sulla via, finché almeno, stanchi di un identità
magari diventata vecchia e pesante, non se ne scorga una nuova all'orizzonte, sulla quale incamminarsi di nuovo come principianti.


- Acquisire auto-disciplina

Dare valore di quel tempo che ho donato all'allenamento ha richiesto un prezzo non indifferente che è quello della disciplina.
Negli anni ho imparato sempre di più a curare vari aspetti che, dietro un apparente tornaconto pratico, nascondono più che altro un rituale utile innanzitutto alla mia psiche.


Coltivare dei riti periodici, che siano piccole sfide o obblighi personali, senza grosse illusioni di fama o di ricompense, senza che nessuno vi paghi o vi forzi SE NON VOI STESSI, è il cuore puro della disciplina.
Di certo il pensiero di avere delle "caramelle" alla fine degli sforzi è incoraggiante... personalmente è nel sapere che ho fatto pegno di utilizzare il  tempo di cui dispongo al meglio, il luogo in cui trovo realizzazione di me stesso.


L'auto-disciplina è quindi un prezzo che pago volentieri per il mio benessere fisico e mentale. L'insoddisfazione, la sensazione di buttare la vita e il tempo in seno alla pigrizia è carbone nella caldaia della depressione.

Saper infine applicare questa maturata disciplina alla correzione di tutti quei comportamenti collaterali della depressione  - quali gli abusi compulsivi e sistematici di varia natura che compiamo verso noi stessi e che spesso fraintendiamo come libertà - la rende strumento ancor più prezioso.


"La libertà è una cosa più complicata dei “diritti”, la libertà è una forma di disciplina. C’è un aneddoto che mi è sempre piaciuto: ti prendo, ti butto in mezzo al deserto e ti dico “vai, sei libero”. Tu non sei libero, anche se in apparenza lo sei. Per essere libero dovresti conosce le oasi più vicine, sapere dove andare, saperti orientare. Oggi l’uomo è disorientato. Ma questo disorientamento lo chiama “libertà”. Bisogna al contrario essere consapevoli di com’è questo mondo, per tracciare un sentiero che è la tua vera, disciplinata libertà."
- Giovanni Lindo Ferretti


- Breaking Jump

Questo è il grande tema che non poteva mancare qua. Alcune delle mie memorie più felici, che posso richiamare alla mente in maniera vivida, sono relativi ad alcuni dei salti più difficili e spaventosi che abbia mai affrontato nella mia pratica.
Il modo in cui hanno preso posizione nella mia memoria è simile al modo in cui un evento particolarmente traumatico si sedimenta nel nostro essere, provocando un cambiamento, ma in opposto, in positivo, in modo terapeutico

Queste memorie sono relative a quei salti che mi hanno inchiodato per anni al terrore, all'incapacità di affrontarli con il loro denso carico di ignoto, pur sapendo di possedere le abilità necessarie per poterli superare.
Ogni persona, che ne senta il bisogno, non dovrebbe sottrarsi alla chiamata di un salto come questi e prepararsi, con onestà e coraggio, ad affrontarli al meglio delle proprie capacità, ed evitare proprio l'effetto opposto.

Non solo di questi salti però si compone la scalata della fiducia in sé, ma di decine, se non centinaia di altri di movimenti che a vari livelli ci mettono di fronte ai nostri limiti e alla paura in tutta la sua terribile forza di dissuasione e che sono la vera base quotidiana della nostra trasformazione.


- Fare attività all'aperto

Non mi perderò via sullo scrivere quali siano i benefici dell'attività sportiva, in particolar modo all'aperto e alla luce del sole. Lo trovo superfluo a fonte della grande quantità di dati che si trova a riguardo con una semplice ricerca sul web. A riguardo mi limito a puntualizzare che lo stare all'aperto a fare una qualsiasi attività fisica è una gran cosa per tutto ciò che di chimico e psicologico concerne.

Tuttavia se nel quadro del Parkour devo indicare la vera rivoluzione nello stare fuori, questa è stata la nuova vista nei confronti dell'ambiente che mi circondava. Là dove prima c'era squallore e grigiore urbano improvvisamente è nato un ambiente ricco di opportunità, di movimento e d'avventura. Non riguarda di per sé il "giocare" con gli occhi di un bambino su di un neonato terreno immaginario, ma il cambio di prospettiva su qualcosa che prima è un problema, o più di frequente una mera scenografia del nostro dramma interiore, e dopo diventa nuovo mondo con il quale interagire, occasione di scoperta e di crescita.

 

- Gioco

Cos'è il gioco per la nostra società? Intrattenimento, scommessa, oppure un affare da bambini. Per la natura invece, a partire proprio dai più giovani, è formazione degli individui ed allenamento di quelle abilità pratiche che poi risulteranno fondamentali nella vita.

Da quando sono entrato nel Parkour e ho iniziato ad acquisire un'idea sempre più positiva e funzionale del concetto di gioco, iniziando anche a stupirmi quanto la nostra società nel tempo abbia scisso
dal gioco il valore educativo ed istruttivo innanzitutto dallo sport (che alla base è gioco), rendendolo spesso fine a sé stesso... ovviamente non senza rare nobili eccezioni, quali gli scacchi (con altri giochi da tavolo) e quelle di chi in campo educativo spinge sempre di più nell'utilizzo di questo strumento ad ogni livello d'apprendimento.

A questo punto ho inoltre notato
anche quanto culturalmente il gioco puro - inteso come attività ricreativa divertente, senza apparente secondo scopo - sia nell'adulto un istinto tendenzialmente soffocato. A fronte poi di gravi fenomeni conseguenti, quali le ludopatie.

Eppure proprio questi "malati del gioco", così come le tonnellate di adulti che spendono parte del loro tempo e dei propri soldi su videogiochi, giocando a biliardo o a vari giochi da tavola, proprio questo ci insegnano: che il gioco è un bisogno fondamentale per ogni età!

 


"All work and no play makes Jack a dull boy"

- Jack Torrance

Togliere l'attenzione dal gioco sano significa spesso dover curare le sopraccitate ludopatie, problematiche motorie, comportamentali, deficit di ogni sorta.
Questo però non vuol dire che il Parkour vada preso come un gioco e sia una cura a tutto ciò, anzi. Ma che l'attività motoria in generale lo possa essere e che possa rivestire ancora quella funzione d'allenamento alle abilità della vita.


Attraverso quella che è la parte di gioco dell'attività sportiva ho imparato ad affinare le mie abilità, a ripristinare il contatto fisico con gli altri (sigh), a solidificare rapporti sociali, a visualizzare i miei limiti con leggerezza d'animo.
Il Parkour vero e proprio invece è stato a più riprese una cosa molto seria per me, non perseguita con l'intenzione di "giocattolare" e tendenzialmente poco incline a vari "Parkour games".


Eppure mi son reso conto di quanto in verità negli anni il gioco abbia sempre fatto parte della mia pratica, guidandomi alla scoperta di un ambiente, potenziando la mia creatività, aiutandomi ad apprendere meglio ciò che perseguivo, allenando la mia capacità di "giocare con gli altri".
Ma soprattutto restituendomi quella sensazione di benessere, così puerile e fine a sé stessa, che troppo spesso in passato ricercavo nell'azione di qualche sostanza o davanti ad uno schermo, anziché nel movimento stesso.


Ora che questa disciplina è anche il mio lavoro, che continuo come tutti a subire le pressioni della vita di un adulto e di un mondo che funziona come funziona, il gioco ha preso coscientemente un ruolo sacro, nel saper di tanto in tanto smorzare la serietà degli allenamenti, nel tenermi fresco, vitale e rilassato.

E per quanto possibile, assieme a tutti gli altri aspetti del Parkour, lontano dalle grinfie della depressione.




Al prossimo post: Gli aspetti negativi

venerdì 15 gennaio 2021

Depressione & Parkour

Ho iniziato a soffrire le prime forti avvisaglie di depressione intorno ai 16 anni. Una situazione familiare e abitativa instabile sommata a quel tritacarne emotivo che è l'adolescenza - con i primi abusi di alcool, droghe, gaming e quant'altro -, sono state la miscela giusta per un risultato abbastanza prevedibile. Ho pochi bei ricordi di quegli anni, dettati perlopiù da rarissime amicizie significative e da varie esperienze randagie.

Alla soglia della maturità il mio umore altalenante era orientato verso un più grintoso delirio egotico: la fine delle superiori ero sicuro mi avrebbe aperto a ogni opportunità di rivalsa... e invece ad attendermi un lavoro detestabile e lo squallido grigiore.

Quel periodo - tra i 19 e i 21 anni - è stato caratterizzato da astenia, ossia un profondo e radicato senso di prostrazione e stanchezza, accompagnato da una situazione umorale instabile che partiva dall'euforia eccessiva per piombare nella depressione più cupa o nella rabbia feroce... situazione che quando non si manifestava in questi estremi era perlopiù di apatia.

A tenermi su in quella fase è stata una compagnia di persone straordinarie che avevo casualmente incontrato quegli anni, ma che purtroppo vedevo poco spesso a causa della lontananza e del lavoro, unitamente ad alcune piccole passioni artistiche/nerd e un po' di socializzazione virtuale maturata in varie comunità online.
Tuttavia anche la socialità non mi era facile, oltre una certa soglia di esposizione a gruppi di persone, per quanto amiche, il desiderio ansioso di fuggire aumentava, come se la cosa a una certa diventasse un peso insostenibile.

Di quei vent'anni ricordo di essermi sentito perlopiù un quarantenne, sempre sigaretta in bocca e birra in mano, sveglia presto, il dovere verso il "dio" lavoro e il fine settimana a spaccarsi nel tentativo di soffocare il disagio esistenziale. I segni di quello che ero ce li avevo nel volto, di frequente mi si attribuivano molti più anni di quanti effettivamente ne avessi.


Depressione e Parkour: l'incontro con la pratica

Poi le cose ogni tanto cambiano, quasi per caso. La crisi dei mutui subprime aveva innescato una serie di eventi che si sarebbero concretizzati negli anni successivi in una diffusa crisi del settore edilizio presso il quale lavoravo, "regalandomi" molto più tempo libero per cercare lavoro - principalmente nel settore della grafica nel quale mi ero diplomato - e un'inaspettata scoperta.

Verso fine dell'estate 2009 un mio caro amico d'infanzia, con il quale mi tenevo occasionalmente in contatto, aveva iniziato a parlarmi di una strana disciplina che aveva iniziato a fare da solo, dopo aver visto un certo film d'azione... Indagando aveva trovato delle tabelle d'allenamento in internet, per creare una preparazione atletica di base, e alcuni forum online italiani, di cui uno veneto, di primi appassionati che si scambiavano informazioni a riguardo. Quella disciplina era il Parkour.

I primi video che il mio amico mi fece vedere erano quelli che pochi anni dopo non avrei esitato a definire ignoranti. Trick mai visti prima su muretti, backflip da metri di altezza, giganteschi salti con rotolamenti, oltre le classiche scene di inseguimento (di quella cagata) di Banlieue 13.
Non so dire cosa scattò esattamente in me a quel punto. Un misto tra istinto scimmiesco, fascinazione verso movimenti così assurdi,  l'apparente assenza di maestri e palestre che lo rendevano così libero e aperto... elementi che mi avrebbero fatto mettere in gioco pochi giorni dopo nel mio primo allenamento.

Il fascino per il movimento non era qualcosa di nuovo in me. L'infanzia l'avevo spesa ad arrampicarmi sugli alberi e avevo sempre avuto una certa ammirazione per le arti marziali che mio padre mi aveva tramandato, avendone praticate in gioventù.
Ma non ero una persona sportiva, mi sentivo scoordinato e pigro, e, a parte un anno irrisorio di karate e un altro di nuoto alle medie, non praticavo alcuno sport al di fuori dell'ora di educazione fisica a scuola.
Alle superiori spesso neanche quella, anche se non era assente l'interesse verso una certa cultura di movimento, che però non andava oltre al "vorrei ma non posso" e il "non sono capace" e che di fatto non si è mai concretizzato in alcuna scelta.

Con questo primo allenamento per la prima vera volta della mia vita sceglievo coscientemente di fare sport.

Da subito l'impatto è stato con la difficoltà.
I polmoni atrofizzati da anni di fumo e la mancanza totale di ritmo mi impedivano di correre per più di 8 minuti. Muscoli mai portati in allungamento mi limitavano in quei pochi movimenti che cercavo di replicare da video e tutorial.
Ad aiutarmi invece erano la resistenza maturata attraverso il lavoro, una discreta reattività muscolare e un'incredibile carica di ispirazione e ambizione.

Di quei primi mesi non parlerò nel dettaglio, coincidendo in parte con la nascita di questo blog. Ma parlerò di quella che è stata la trasformazione della mia vita e del mio umore in quel breve periodo.

Depressione e Parkour: la metamorfosi

A distanza di poco tempo avevo trovato un lavoro fulltime in un'azienda come responsabile marketing. Avevo una ragazza. Avevo dato una ridimensionata drastica a tutti i miei comportamenti negativi e praticavo Parkour regolarmente 3-4 volte a settimana, 8 ore a settimana.

Oltre a scoprire le mie nascoste abilità fisiche, quel mutamento profondo in atto nelle mie sinapsi aveva migliorato anche la mia creatività e iniziavo ad affacciarmi spontaneamente a una visione della pratica che timidamente definivo spirituale. In questo quadro la depressione, grazie al Parkour era quasi del tutto scomparsa.

Poi le cose, questa volta non per caso, cambiano. Il lavoro stava andando male. Mi trovavo male coi colleghi. Anche la relazione faceva acqua da tutte le parti. Istericamente cercavo di reagire con sovradosaggi di quella medicina che era il Parkour, causandomi i dovuti effetti collaterali e infine portandomi a un crack generale in un po' tutti i fronti.

Da qua una serie di eventi ampiamente descritti in questo blog, che mi hanno portato fuori dai confini italiani, al primo vero infortunio, a un abbandono temporaneo del Parkour. E infine al mio ritorno sulla scena, ai primi anni da insegnante, una sequela di grandi soddisfazioni e fastidiosi infortuni.

In tutto questo la depressione, protagonista di questo post, ciclicamente è sempre stata una costante mai del tutto assopita. Il Parkour il suo contraltare, inizialmente grandissima terapia, in seguito generalmente positivo ma non esente dall'essere fonte di trauma e malessere vario.
Ad ora non una cura definitiva, ma la prima di tante pietre posate verso un lento processo di guarigione.

Mi trovo difatti a scrivere su questo blog di questo argomento intimo e delicato per un motivo ben preciso. Gradualmente in questi ultimi anni ho trovato più stabilità psichica di quanta ne abbia avuta nei venti precedenti, avendo guadagnato di anno in anno periodi sempre più lunghi di quiete, fino al picco attuale di 6 mesi senza sintomo depressivo alcuno: la prima volta di un periodo così lungo dall'adolescenza!

Questo non significa che non abbia avuto difficoltà, mancanze e dolori in questo arco di tempo... bensì l'essere riuscito a conviverci senza quel senso schiacciante di futilità nel confronto di qualsiasi sforzo e di perdita di senso assoluta verso la vita nel suo complesso.

Scopo di ciò che scriverò in dettaglio non è certamente il vendere una cura miracolosa (specie per una patologia complessa che presenta vari stadi e diverse cause), piuttosto quello di condividere la mia esperienza su come il Parkour e i suoi differenti aspetti abbiano avuto influenza su questo stato di sofferenza mentale che è la depressione.
Sia per poter essere d'aiuto a chi ne ha bisogno, sia per mettere in guardia chi si avvicina rischiosamente a una mentalità e a una pratica che possano portare più malessere che beneficio.

Al prossimo post: Parkour Therapy? - Una guida

lunedì 4 gennaio 2021

Tutte stagioni in movimento

Questo post nasce con la sola intenzione di creare un degno "mausoleo" di questo progetto. Non aggiunge alcun sostanziale nuovo materiale a riguardo, piuttosto si limita a raccogliere tutti gli elementi disseminati in giro nei vari social. Per quanto riguarda i dettagli e i vari contenuti "esoterici", lascerò il compito a chi avrà l'interesse e la pazienza di studiarsi l'opera e gli indizi di scoprirli autonomamente. Quasi nulla è lasciato al caso nella realizzazione di ciò e chissà, indagando qualcuno troverà risposte per sè stesso e per la propria pratica... che ricordiamoci è pratica di vita!
 
 
"Tutte le Stagioni in Movimento" è un progetto che ho iniziato a coltivare subito dopo la fine del primo lockdown.
Non avendo un'idea chiara di cosa avrebbe parlato, ho iniziato a modellare le clip che stavo raccogliendo in qualcosa che descrivesse e riassumesse quella scelta che ho fatto 11 anni fa e che da allora sta conducendo la mia vita.

Questo NON è un video di parkour.
 
È più un documentario. Sulle transizioni nella vita. Sul crescere e l'evolversi. Sulla dedizione a una pratica di movimento, che non è un processo lineare. Invece passa ciclicamente attraverso fasi e regioni - nelle quali dipenderà principalmente a te quanto starci, una volta salitoci di nuovo -.

Allo stesso modo NON è solo movimento.

È anche un tributo ad alcune delle persone che stanno ancora rendendo significativa questa esperienza. È un tributo alla magnificenza e alla poesia della natura, per la quale noi umani abbiamo iniziato a creare arte appositamente per imitare tanta bellezza.
Il risultato è un prodotto a me così intimo e prezioso che ho persino paura a condividerlo.




Il parkour diventa riflessione artistica ed esistenziale nel video di Ravi Semenzato
"Il progetto, che è stato sviluppato dopo la fine del lockdown, si compone di quattro capitoli (...) che rappresentano metaforicamente le stagioni vissute da Ravi durante la sua esperienza di movimento (...) L’autore non manca inoltre di rivolgere l’attenzione verso l’aspetto contemplativo della disciplina, in un continuo equilibrio e scambio tra la pratica motoria e il territorio circostante."

- Il parkour diventa riflessione artistica ed esistenziale nel video di Ravi SemenzaSabrina Zuccato , Venezia Today


Potrebbe interessarti: https://www.veneziatoday.it/attualita/il-documentario-di-ravi-semenzato-che-racconta-il-parkour.html?fbclid=IwAR3yxIdaEXHdCdu7g7et3jdrqNAwG84p58K3Xw8h8GjuHsLYkAQOkIG1AB0




Primo capitolo introduttivo, ultimo in ordine cronologico di montaggio, in "Primeval KAOS" (Caos Primordiale)  è quello nel quale mi sono avvalso della partecipazione di parte della nuova "linfa vitale" del parkour veneziano.

In ognuno di questi protagonisti c'è un aspetto che rispecchia il modo in cui ho vissuto i primissimi anni della pratica: l'ambizione, il confronto -talvolta bruciante- con i propri limiti adeguatamente bilanciato dalla fiamma del successo e dall'effimero calore della soddisfazione.

È un territorio, questo, nel quale sosto sempre meno, ma è un fuoco rovente, primitivo, che continua ad esercitare il fascino antico del focolare, al quale prima o poi tutti tornano per potersi scaldare.
Il titolo originale era anche: "Sun Walk with Me" (Sole Cammina con Me).





FERMATI è il capitolo dal quale tutto è nato, casualmente dai primi allenamenti in compagnia al termine del primo lockdown, senza sapere che avrebbe fatto parte di un progetto più grande.

Da un 50 mm e una canzone casuale nascono i primi richiami alla lotta di muscoli stanchi -che è reale-. È il capitolo con più SPIGOLI, il più difficile da digerire. Come la ripetizione nelle avversità è difficile da digerire. Come la frustrazione del non crescere è difficile da digerire.

E come lo è quel desiderio spesso amaro da ingoiare di voler dire FERMATI dal gioco, di abbandonarlo e buttare acqua sul fuoco.
È l'inverno della motivazione, dal quale nascerà una nuova primavera?





"Fools paradise"
(Il paradiso degli sciocchi), il capitolo al quale mi sento più legato.

Leggerezza è la parola che lo descrive. Formiche in panico lo popolano, nel loro mondo che è stato agitato. Assieme a sciocchi che sfidano pericoli che forse non conoscono. Sullo sfondo il loro mondo, che è stato agitato, una primavera già estate.

Amicizia, solitudine, imprecisione, perfezionismo. Movimenti "fuori fuoco" e pura concentrazione, vuoti che si riempiono. Un gioco di opposti in costante transizione l'un l'altro a simboleggiare l'elemento etereo dell'aria.


"Harmony Peaks"
(Le vette d'armonia) il titolo originale.






HUMUS è il terreno da cui tutte le pratiche sono generate. È la fine e l'inizio di un percorso che va da A (movimento) a B (contemplazione). È la dissoluzione, di una qualsiasi identità, nella partecipazione, con ciò che la circonda (le realtà).

Il piede nudo è un tramite tra queste realtà. Testimoni di queste realtà sono: foglie secche, che annunciano l'autunno; scarabei, che si trascinano come ombre al loro destino; grida, di quei bambini, dai quali forse tutto rinascerà.
Poiché ciclo dopo ciclo, tutto ritorna: trasformato!

Sono tutte stagioni in movimento.




lunedì 28 dicembre 2020

Perchè NON sei un "Parkour Athlete"

Miti & leggende dal passato: cos'è il Praticante? Questa figura con cui i pionieri della disciplina si identificavano e che ormai viene rilegata ai libri di storia del Parkour, assieme ad altri termini sempre più inconsueti (come ad esempio "traceur"), è ancora ad oggi il modo con cui una buona fetta delle persone con le gambe in pasta, in quest'area di movimento, definisce sé stessa.

Atleta, Artista, Freerunner, passando per il dubbioso "parkourer" sono i vocaboli oggi sempre più comuni.  Ecco invece perché dal mio punto di vista "Praticante" continua ad essere non solo il termine più sobrio per definire gli individui di questa comunità in movimento, ma effettivamente il modo più corretto per definire la stragrande maggioranza di queste persone!

"Il Praticante è un esploratore. Si crede un atleta, ma spesso è troppo cazzone per esserlo. È un buffone ma sa cosa vuol dire la serietà. Sa curarsi (male) con le sue mani. Ma soprattutto è guidato da una fortissima curiosità e voglia di vedere oltre il proprio naso e i propri limiti. E odia i programmi."

Questa la descrizione poetica che davo del praticante nel mio precedente post. Poter dire che questo è l'assoluto archetipo di ogni praticante che ho incontrato in questi anni sarebbe ingiusto.

Le persone sono diverse e si approcciano ad una determinata cosa relativamente "aperta" portando la propria personalità, la propria esperienza e diverse risorse, che possono risultare in ampio contrasto con questa definizione. Tuttavia sono abbastanza sicuro che chiunque abbia vissuto il Parkour - o una qualsiasi disciplina - da pioniere possa riconoscersi in almeno uno o più di questi aspetti e che alla radice di tutti ci sia almeno un barlume di voglia di esplorare.

Perché all'inizio di questa avventura c'è stata un'occasione di scoperta. Ed una grandissima ignoranza di base. E da questa la possibilità di indagare una determinata cosa anche fraintendendola, ma rendendola personale, unica, ricca di immaginazione ed idee.
Per non parlare delle esperienze, quali il dormire su un tetto con un sacco a pelo, l'allenarsi con persone dall'altra parte del mondo o lo sperimentare sfide concettuali.

Ed è questo che sta a capo della grandissima diversità che possiamo ammirare nel Parkour e che, al di là dei dub full e dei side prec (o di un qualsiasi movimento x di moda per un determinato periodo), continua a resistere alla faccia di chi vuole standardizzare questa disciplina, rendendola un set di movimenti stereotipati valutabili a punteggi.

Quindi chi fa Parkour non può semplicemente essere definito un Artista?

Dal mio punto di vista no. Non del tutto almeno.

Ora, non voglio entrare nell'ancor più intricato mondo di cos'è Arte e cosa non lo è e mi appoggerò alla vaga definizione di "espressione di sè", mediante uno strumento-corpo.
Sebbene non neghi che il fattore espressivo sia qualcosa che caratterizzi la disciplina, specie nelle sue forme più estetiche, credo ci sia qualcosa di più forte della volontà di esprimere sé stessi. Ad esempio qualcosa che (almeno all'origine) pende molto di più verso il mondo generale dello Sport e dell'Atleta:

Il gioco.

Hai perso.

Che sia con i propri fra, homies o buddies, la voglia di giocare anche a qualcosa che diventa molto serio come una sfida, assieme a quella del superare i propri limiti, è quello che avvicina molto di più il praticante di parkour/add/freerun al mondo dell'atleta - dilettante per lo meno -.

Dunque se chi pratica queste discipline è un po' atleta ed un po' artista (ma sostanzialmente nessuno dei due), ed è un qualcuno che ha imparato principalmente su di sé, senza "scienza" sulle spalle ma con la ricerca e l'esplorazione personale, allora Praticante è proprio la parola che fa al caso giusto.

Ma nel dettaglio cos'è un praticante? Lascio a voi le conclusioni con il seguente diagramma di Venn.

Premetto che questa è un'interpretazione personale dei vari elementi alla radice di ogni ambito. Non una verità assoluta. Perché (fortunatamente) non è tutto bianco o nero, e un atleta può imparare ad improvvisare (vedi gli sport di situazione) e un artista può essere fortemente legato ad un obbiettivo o meglio ancora basarsi sul gioco. Per non parlare poi di tutti gli sport di combattimento, un mondo parallelo ancor più grande e complesso.

Allo stesso tempo facendo un'approssimazione di categorie molto grandi e prendendo a riferimento le discipline nei dintorni del Parkour, è improbabile che molti di questi concetti non emergano in quella posizione.



I punti di incontro sono da intendere propri di quelle categorie nate dalla fusione tra le diverse macroaree


Infine:

È così importante dover dare un nome a cosa si è e a cosa si fa?

No
.

Però nel qual momento lo si dà è importante capire qual’è la propria identità. Per onestà verso gli altri o verso sé stessi. Per preservare una cultura giovane che già si perde via lavata da ventimila novità, sempre più frammentaria, inconsistente e colonizzabile. O semplicemente per avere un punto di riferimento chiaro nel qual momento ci si voglia distaccare da quell'identità per muoversi verso un'altra direzione.



tl;dr: Definirsi "parkour athlete" spesso non è del tutto onesto/corretto ed è relativamente importante al fine di preservare un'identità comune nel parkour.



*che a sua volta conta numerosi nomi e sfumature.


sabato 19 dicembre 2020

MA TU QUANTO TI ALLENI?

Quella del titolo è una domanda che spesso sento rivolgere a chiunque pratichi una disciplina/sport al di fuori dell'ambito hobbistico, me compreso. Mia intenzione non è di certo di rispondere a questa domanda, bensì di prendere l'argomento alla larga per parlare della mia esperienza personale nel Parkour / Art du Déplacement / Movimento e di come il mio approccio sia evoluto lungo gli anni, magari fornendo qualche spunto succoso per migliorare il VOSTRO, di allenamento.

Come su tutto (o quasi) più tempo dedichiamo ad una determinata cosa, più dovremmo maturare esperienza ed abilità in tale campo specifico. Verità è che se in una settimana maturiamo un cumulo di ore facendo tale cosa, quelle ore sono subordinate a così tante variabili che non è detto il risultato sia pari per due o più soggetti di pari abilità e potenziale di partenza, che si esercitano nella stessa cosa.

Per chi come me è cresciuto nel dogma del "fare tanto", che unisce parte del mindset determinato - tipico di certe pratiche - all'aver scelto questa vita - e del dover quindi giustificare a me stesso e alla mia cultura d'origine di essere un mulo da soma -, l'aspetto quantitativo, di quanto tempo si dedica ad una certa cosa e di quanta fatica si fa in una certa direzione, è sempre stato uno dei pilastri di riferimento e delle vette alle quali ambire.

Se l'aver dedicato una notevole quantità di tempo a ciò che mi appassiona è stata effettivamente la cosa che mi ha permesso di migliorare visibilmente su tanti aspetti e coltivare tanti obbiettivi contestuali, la mia esperienza attuale mi dice che quelle ore non sempre sono state utili alla mia crescita.

Ora per togliere mistero di quali elementi influenzino la fruttuosità di queste ore, ecco un breve elenco delle variabili principali. Che non descriverò in dettaglio ma alle quali abbinerò delle domande-chiave:

- DENSITÀ (Quante cose hai fatto in quell'ora di allenamento? Quanto sei stato concentrato? Quanto hai cazzeggiato?)

- FREQUENZA (Quanto spesso ti sei allenato? Come hai distribuito quelle ore? In quali fasce hai ripetuto un determinato gesto?)

- QUALITÀ (Quanta attenzione hai dato al gesto eseguito? Il metodo che hai utilizzato è stato utile a migliorare? Sei arrivato al risultato desiderato?)

- RECUPERO (Quanto eri stanco -prima, durante, alla fine- di in un determinato lavoro? Come hai dormito? Cosa hai mangiato e quanto?)

Se vi allenate seriamente, prima o poi vi porrete queste domande, e vi sarà facile identificare le variabili di cui sopra ed intuirne la loro influenza.

Ora, prima che volino ceffoni dai tecnici del settore e mi si accusi (giustamente) di disonestà intellettuale, addentrandomi in terminologie troppo tecniche che poco si addicono alla mia formazione da "nerd", ricchissima di lacune di base (non sono un scienze motorie né ho certificazioni specifiche che non riguardino il solo insegnamento dilettantistico), voglio: 1 precisare che non sto parlando in maniera specifica di allenamento della forza o bodybuilding; 2 prendere l'argomento dal punto di vista per me più onesto, ossia quello del "Praticante".

Cos'è il Praticante?

"Il Praticante è un esploratore. Si crede un atleta, ma spesso è troppo cazzone per esserlo. È un buffone ma sa cosa vuol dire la serietà. Sa curarsi (male) con le sue mani. Ma soprattutto è guidato da una fortissima curiosità e voglia di vedere oltre il proprio naso e i propri limiti. E odia i programmi."

Quello del praticante è un argomento che tratterò a fondo con un post dedicato, evidenziando in special modo le differenze con l'atleta e il perché questa parola è così forte nell'identità di chi ha vissuto il Parkour in una certa epoca.

In attesa che ciò avvenga, quello che dovete sapere di importante di questa figura - nella quale identifico me e molti altri compari - è la dedizione ad una certa arte o per l'appunto "pratica" che mal si presta ad una pianificazione maniacale.
Se da un lato c'è il desiderio di crescere, esplorare, di superare i propri limiti e l'effettiva volontà, ed impegno, nel conseguire certi obbiettivi, dall'altro c'è la disorganizzazione, la noia verso percorsi e metodi prestabiliti, rodati (e quasi sicuramente funzionanti), la tendenziale difficoltà ed indisciplina nell'entrare in routine meccaniche.

Nella mia esperienza entrare in modalità di allenamento estremamente ripetitive è stato faticoso sin dall'inizio; ogni fuga momentanea una salvezza. Allo stesso tempo si è rivelato sia una medicina non troppo amara per sistemare forti debolezze, sia uno strumento concreto per ottenere risultati tangibili nel mio allenamento (e nella vita). E che soprattutto ha rinforzato l'idea sempre di grande valore del:

"Per poter fare ciò che ti piace prima o poi devi fare anche ciò che non ti piace"

Ottenuti certi risultati è tornato però un problema evidente, legato all'essere un Praticante:

Quello di essere un cazzone.


Che preferisce fare challenge di volumi atroci di ripetizioni un giorno al mese, piuttosto che la stessa cosa 10 ripetizioni al giorno ogni giorno*. Che ricerca ogni volta sempre un'esperienza nuova anziché formulare strategie per diventare più esperto. E che puntualmente ripiomba nei limiti di un qualcosa, che oltre una certa soglia e al presentarsi di certe problematiche (infortuni, debolezze, stallo), di strategia ne necessita eccome . Tutto ciò che invece appartiene ad un ATLETA.

 *Ok, so che non tutti i praticanti si riconosceranno in questo, ma oggettivamente, specie tra i pionieri della propria città/regione/nazione quanto non è verosimile questa descrizione?

Su questa base, dopo aver sperimentato per alcuni anni periodi specifici di allenamento della forza, assemblando programmi con le mie conoscenze più o meno basilari, sbagliando e correggendo di volta in volta, ottenendo grossi risultati ma soprattutto FATICANDO COME UN MULO, sono arrivato ad un punto in cui:

- a) mi è più facile sottostare a delle routine
- b) non sopporto più di lavorare in maniera troppo serrata con un programma

O meglio. Non mi piace dedicarci più quella quantità di tempo ed energie assurda che ci dedicavo per quei 4 mesi all'anno, in cui quasi non riuscivo ad uscire a saltare (con conseguenti perdite da quel lato). Non mi piace l'essere vincolato in maniera così stretta ad uno schema con tot fasi e tot obiettivi. E mi piace ancora meno l'idea di diluire quel lavoro di 4 mesi nell'arco di 12.

Però mi è necessario.

Da una parte quindi me la sono messa via ed alcune cose sono diventate elementi fissi (specie mobilità, verticali e riabilitazioni varie), dall'altra invece sono sempre più orientato verso un approccio ibrido, che unisca i diversi aspetti vitali della mia pratica.

Ora prima di spiegare in dettaglio cosa intendo con ibrido, vi introduco un'altra variabile che ho tralasciato dalle precedenti:

- FUORI COMFORT

(Hai superato di un po' i tuoi limiti? Ti sei esposto ad una difficoltà maggiore? Hai provato paura?)

Ora:

    cos'è questo approccio ibrido?

Di certo NON è uno strumento che può sostituire la completezza e la qualità di risultati di un buon programma d'allenamento strutturato su di voi.
Piuttosto una modalità sia per avvicinare chi è allergico al concetto di routine - e necessita di migliorare in un qualche aspetto specifico -, sia per coloro che hanno già dimestichezza ed esperienza con allenamenti programmati ma che vogliono limitare al minimo questi, mirando piuttosto a mantenere un corpo ed abilità sempre pronti per l'avventura.

In come si differenzia dal "allenamento alla cazzo dove faccio le solite 2-3 cose"?

Implementando il concetto di fuori comfort. Che richiede quella ripetizione in più (o quella un po' più difficile, paurosa od intensa che sia) ad ogni sessione di allenamento. Stabilendo un numero (ragionevole) di ripetizioni settimanali di quella tecnica che abbiamo stabilito di lavorare per un dato periodo.

Nutrire questo approccio richiede soprattutto onestà. Come qualsiasi tipo di allenamento le cose da allenare devono essere ragionevolmente proporzionate al tempo che abbiamo a disposizione e al nostro stato di salute, se non vogliamo trovarci con un pugno di mosche in mano. Ancor di più l'intensità (l'entità dei carichi) con la quale lavoriamo deve essere ben adatta alle nostre capacità e a questa modalità di lavoro per evitare tragici epiloghi.


I tragici epiloghi?

Per questa sua natura è una modalità che non si presta ad obbiettivi specifici, bensì ad obbiettivi generici. Come può essere pulire un movimento acrobatico. O mantenere un generale livello di forza negli arti inferiori. O guadagnare una maggiore stabilità di core.

Serve quindi eliminare l'idea di ASPETTATIVA legata ad un obbiettivo, quale può essere di tirare su un quantitativo specifico di pesi o di giungere ad una certa skill o variabile di tecnica particolarmente complessa.

L'unico vero obbiettivo che dobbiamo portarci a casa è quello di aver svolto il nostro dovere ogni settimana. Sembra banale ma l'idea di avere un obbiettivo fisso da seguire anche solo una volta a settimana e da evolvere in un arco di tempo più lungo, non è affatto scontata per chi non si è mai allenato in autonomia stabilendo una routine o con un programma.

DA DOVE INIZIO?

Dal tuo livello d'esperienza e di fitness ATTUALE.

Sei fuori forma e non hai una routine? Trovati qualcosa che puoi fare con semplicità (dei piegamenti, dei volteggi, delle tenute isometriche), stabilisci un numero ragionevole** di ripetizioni, le volte in cui ripeterlo (o il tempo che vuoi dedicarci) e trova il modo di renderlo più difficile ad ogni sessione, senza dimenticare un lavoro a metà una tantum.

Sei esperto ma infortunato? Dai priorità alle tue debolezze e struttura il tuo approccio ibrido sulla riabilitazione.

Sei un PRO ma non hai più il tempo di prima? Trova un obbiettivo giusto che dia il massimo guadagno con il minor dispendio possibile di tempo. Se vuoi arrivare ad 1 min. di verticale da 0 magari no, perlomeno non da solo.

Concludo con una considerazione finale, che è la domanda che talvolta si abbina a quella del titolo. A CHE PRO? Ricordatevi che una disciplina è soprattutto uno strumento per formarvi, farvi superare i vostri limiti individuali, quali possono essere la pigrizia, l'insoddisfazione e la scarsa salute motoria.

Non serve che diventiamo tutti degli eroi, degli acrobati d'alto livello o dei pifferai magici. Serve che ognuno metta qualcosa in più sul piatto dell'impegno per stare meglio con sé stessi ed il mondo.



 
**ragionevole sta ad indicare un numero che non sia follemente insostenibile nel lungo termine, rispetto alla vostra preparazione e allo stesso tempo così basso e diluito da essere inutile

martedì 8 dicembre 2020

SULLE COMPETIZIONI (ANCORA?!)

Ritorno il più brevemente possibile sull'argomento, dopo averne dibattuto in passato (non sul blog ma su social). In questi giorni si sono svolti i campionati di "Parkour" FGI Rimini, che hanno visto partecipazione di alcuni atleti in vista del panorama italiano (più altri che sinceramente non conosco), la pubblicazione di alcuni articoli di stampa specialistica, un discreto clamore mediatico sui social da parte della comunità di pk/fr/add che dibatte giustamente sull'impatto che avrà la cosa in questione.

Ora prima di scrivere il mio pensiero e per massima trasparenza preciso che:

- faccio attività di corso con società sportive della ginnastica in qualità di collaboratore e coach di parkour;
- di cui una affiliata FGI e con una forte componente agonistica
- non formo atleti per competizioni e ad ora non mi è stato chiesto nulla in tale direzione
e (cosa che mi attirerà probabili future antipatie da parte di amici di lunga data):
- allo stato attuale NON sono totalmente sfavorevole alle competizione nel parkour

Fatte queste precisazioni ed evitando ulteriori preamboli riguardo il decorso del parkour mondiale all'interno della FIG che è un processo ormai avviato da qualche annetto, voglio specificare che l'impellenza di questo post nasce per dipanare un mio commento su facebook, ovvero il seguente:


Alla luce dei punti citati sopra credo sia facile tacciarmi di incoerenza ma cercherò sempre per punti (per cercare maggiore sintesi) di specificare tutto il mio pensiero a riguardo:

- NON SONO DEL TUTTO CONTRARIO ALLA COMPETIZIONE NEL PARKOUR. Sono contrario come lo ero in passato al doversi trovare a promuovere la disciplina attraverso un filtro competitivo in cui debba essere spiegato che il parkour può ANCHE NON ESSERE orientato all'agonismo. Questa cosa è una differenza che mi turba non poco, in più una disonestà nei confronti di me stesso e di tutte quelle persone che si sono avvicinate a questa disciplina(e) (comprese quelle a cui insegno) per la sua natura LIBERA senza voler essere inquadrate all'interno di un sistema performativo stereotipato la cui massima ambizione è classificarsi attraverso un sistema di punteggi.

- con tutto il rispetto che nutro nei confronti delle personalità della ginnastica con cui collaboro SONO CONTRARIO ALLE COMPETIZIONI FIG/FGI o gestite da qualsiasi federazione non figlia del nostro mondo (lasciando stare WFPF/IPF che sono figlie di imprenditoria pubblicitaria). Ritengo che se proprio ci debba essere un format competitivo quello debba nascere con canoni e punteggi stabiliti dalla comunità attiva, non da personaggi orbitanti per puro interesse privato.

- SONO CONTRARIO AL TIPO DI DIFFUSIONE MEDIATICA "POSITIVA" che ne deriva. L'idea che questa disciplina di scapestrati mal vestiti che saltano sui muri ora finalmente puliti dalla FIG sia conformata entro i parametri del socialmente accettabile è semplicemente ributtante. Come se l'abito facesse il monaco e non ci fossero persone "scapestrate" e mal vestite che dall'alba di questa disciplina lottano per il riconoscimento di ciò che facciamo in chiave positiva, di miglioramento individuale e sociale.
Qualcuno può dire che entrambe le realtà possono coesistere, io ci vedo una PERICOLOSA deriva verso una scissione di praticanti seri e per bene che fanno i contest in ambiente sicuro ed omologato e di sciroccati che saltano su cose senza averne l'autorità. Uno sputo in faccia a chi da anni lavora per un riconoscimento COMPLETO. Confido che la nostra realtà sia sempre più forte ed attraente di questa, ma ricordiamoci che le regole attualmente le fa la FGI/FIG.

- La "PENA" che provo è relativa alla dignità individuale. Di atleti fortissimi, mover straordinari, che si prestano a format di siffatta bruttezza, che snaturano ciò che c'è di bello ed artistico nel mondo del movimento inseguendo un sistema di punteggi stabilito da chi ha un filtro estetico che non combacia con il nostro. Lasciando poi perdere l'aspetto valoriale, del quale non vedo alcuno di questi atleti impegnato a specificare che questo NON è "vero" parkour. Capisco poi che come tutti si cerchi di "portare la pagnotta a casa", specie per chi viene da realtà più difficili e questo non lo critico, ma è veramente questo il prezzo? E questa la soluzione?

Ora che ho dipanato questi punti, il post può essere considerato già concluso. Ecco invece, per chi volesse, le specifiche per chiarire più a fondo.

La mia idea sulle competizioni NON CAMBIA, se mai, attraverso l'osservazione, migliora. Presupponendo che una società evoluta progredisce verso una direzione COLLABORATIVA anziché COMPETITIVA, la realtà dei fatti è che LA COMPETIZIONE È UN FATTORE INSITO NELLA NATURA STESSA, è biologica, umana, istintiva. E come ogni istinto va domato, non represso. Ne va colto il potenziale fortemente formativo e finalizzato correttamente. Negare questo fattore vuol dire negare la volontà stessa di dare continuità a noi stessi come specie.

Io sinceramente vivo come un deficit la mia mancanza di spirito competitivo. Specialmente quando si realizza di non vivere in una società prettamente collaborativa come idealisticamente si vorrebbe. E sinceramente non capisco perché ai ragazzi cui insegno debba essere negata questa esperienza in toto, come fosse il grande male del mondo e non ci fosse nulla di positivo da imparare.

Questo significa che bisogna per forza fare le competizioni di parkour?
NO! Questo significa che la competitività non deve essere trattata in maniera dogmatica e rifiutata, ma bensì integrata, fatta sperimentare in maniera sana, senza negare il RISPETTO per gli altri (visto come deriva negativa della competitività) e che il dialogo con l'"Ego" (il grande demone) debba essere favorito e dipanato anziché bastonato e mal soppresso, come in molti ho visto fare. La medaglia alla quale si deve poter ambire attraverso la competizione è quella dello sviluppo individuale e del proprio benessere psicofisico e questo passa in maniera imprescindibile attraverso un'opera di EDUCAZIONE. Sotto questo PUNTO IMPRESCINDIBILE, in cui si sancisce un limite di cosa può essere STRUMENTO e cosa può essere il FINE anche le competizioni organizzate da una società stessa possono essere utili, anche se non per forza necessarie.

Aggiungo che da come ho potuto osservare, spesso chi rifiuta la competizione parte da:

  • un rifiuto di mettersi in gioco e in confronto con altri per auto-sminuimento e poca fiducia in sé, che si manifesta solitamente nella paura del perdere
  • un'idea tendenzialmente negativa di pericolo incontrollato e di farsi male
  • la mancanza di volontà di omologarsi ad un sistema preconfezionato

Dal mio punto di vista tutte motivazioni SACROSANTE al rifiutare la competizione e qualsiasi tipo di pressione esterna nel fare qualcosa che si valuta intimo e personale. Ma bisogna anche essere certi che:

  1. Non ci stiamo prendendo in giro, rifuggendo da qualsiasi confronto per mancanza di onestà con noi stessi
  2. Non siamo noi ad essere impreparati di fronte ad una sfida impegnativa (come può esserlo quella della competizione)
  3. Non abbiamo qualcosa di irrisolto con il nostro "Ego" che ci fa gridare al lupo ogni volta che vediamo qualcosa che nel nostro mondo ideale mette in crisi l'auto-repressione che applichiamo

Con questa base fare sperimentare la competizione in maniera mirata ad ogni livello e stimolarne una visione critica senza dogmi credo possa non essere più un paradosso. Ad esempio attraverso il gioco. Che se ben strutturato, può anche fare sperimentare la vittoria a tutti.

Infine, riguardo alla "pagnotta da portare a casa": riconosco che alcune persone vivano in contesti più difficili e rarefatti dal punto di vista lavorativo, ma HEY. Ho 32 anni, ho scelto questa vita per questo momento e vivo nelle stesse difficoltà. Vivo autonomo, ho spese di affitto, cibo, utenze e trasporti e non chiedo soldi alla mia famiglia. Vivo di ristrettezze ed instabilità (mai come in questo momento), soppesati dalla bellezza di poter continuare a praticare movimento ogni giorno e lo faccio con dignità insegnando ciò che amo. So che non tutti sono inclini (per fortuna) all'insegnamento. Conosco la paura della mancanza di soldi, conosco le pressioni e le perplessità della famiglia, ma conosco anche la capacità di fare qualcosa di magari sgradevole ma onesto per potersi sostentare momentaneamente e continuare a muoversi. Conosco anche chi ha a malapena 20 anni e cerca di fare il botto della vita senza mettersi in gioco su nessun altro aspetto personale. E conosco anche chi da questa idea è stato tritato.

Per (finalmente) concludere, alcune precisazioni del caso:

- Volevo esprimermi su Antonio Bosso, che da anni seguo ed ammiro per la grande abilità nel muoversi e il lavoro che fa nel sociale in una realtà cruda come quella di Napoli e che mi ha fatto digerire anche i format più indigesti nell'ottica di questa sua missione. Non lo farò per i sentimenti contrastanti che la cosa mi genera.

- Non ho parlato dell'aspetto limitante in termini di movimento STEREOTIPATO nelle competizioni e conseguente difficoltà di stabilire dei canoni veri e propri per i punteggi in un mondo motoriamente aperto come questo. Per non parlare poi dell'aspetto MENTALE che è uno dei punti cardini della disciplina.

- Il mio ruolo rimane invariato. Continuerò a non essere formatore di atleti agonisti, anche se non negherò loro la possibilità di competere durante le lezioni. Non parteciperò alla creazione di alternative ai format della FGI perché non è nelle mie competenze, anche se sosterrò più qualcosa che viene dalla comunità che da fuori. I miei allievi saranno liberi di fare le loro esperienze in ambito, semplicemente non avranno il mio supporto in gara, ma neanche la chiusura di porte in faccia. Magari parteciperò di persona a qualche competizione, chissà.