Lungo
questo intricato viaggio che è per me il Parkour, periodicamente mi fermo a indagare su cosa ho maturato nel corso di questi anni. E in particolar modo su
quanto, di quel bagaglio che mi porto dietro, sia frutto, evidente e
tangibile, di un certo modo di praticare e di intendere la vita. Non piuttosto una storia che racconto a me stesso, la quale sostanza
è della stessa materia inconsistente di cui son fatti i sogni.
Questo
è appunto uno di quei periodi, che mi sta mettendo in discussione su
ciò che sto facendo della mia vita. Che inoltre, un po'
forzatamente, mi ha fatto appendere la pratica al chiodo*, instillandomi da ciò il dubbio dell'essere stato veramente in grado di incorporare
alcune attitudini e concetti fondamentali del Parkour, se non dello sport in generale.
Una
domanda su tutte, emersa prepotente da questo rimestamento di
perplessità, è stata:
Sono davvero resiliente?
Ho
visto che darsi una risposta è facile, se si appartiene a una delle
seguenti tipologie di persona:
-
Quella sfiduciata delle proprie capacità, contraddistinta da una
bassa considerazione di sé, risponderà sicuramente di no;
-
Quella in possesso di livelli medio-alti d'autostima, dalle narrative
interne orientate a un vivere funzionalmente positivi e sicuri delle
proprie facoltà, risponderà con decisione di si.
So
per certo d'appartenere decisamente più alla prima categoria che
alla seconda, pur essendo, a tratti, un buon crossover tra le due.
Tuttavia,
nel tempo ho realizzato che nessuna di queste due possibilità
corrisponde a un quantomeno vago ideale di “verità”,
quanto più alle continue piccole o grandi bugie su noi stessi che, a
noi stessi, quotidianamente raccontiamo.
Arrecandoci
in un modo o nell'altro una qualche forma di sofferenza: sia questa
nel perpetrare una visione negativa e sminuente del nostro sé, sia
quella conseguente a quando quelle illusioni auto-prodotte, con le
quali ci sovrastimiamo, crollano tragicamente nel momento in cui la
vita le mette a dura prova.
Da
qui si possono formulare numerose ipotesi sul fatto che vivere più
affini al secondo esempio, avendo accortezza di stare lontano da
tutte quelle situazioni che ci possono mettere in crisi, possiede
verosimilmente dei risvolti più favorevoli, all'esistere in maniera
serena e funzionale a sé stessi.
Avendo
però poche competenze “tecniche” in materia, valutando questa
inclinazione come qualcosa di più o meno innato e poco “sceglibile”,
e soprattutto avendo scelto io stesso, nella vita, di dedicarmi al
Parkour / Art Du Déplacement con una certa attitudine (e da qui di
pormi periodicamente sotto test), capirete bene perché non andrò
oltre nel sondare questa possibilità.
Resilienza come “skill” a livelli
Cosa
rispondo a me stesso, dunque, alla domanda: “sono resiliente”?
Si.
Ma
cosa alla domanda: “sono totalmente resiliente”?
No.
L'idea
attuale che vaga per la mia mente, è quella di non aver acquisito
resilienza come un'abilità assoluta grazie a una certa soglia
d'esposizione al Parkour. Ma che sia piuttosto un contenitore: pieno
in una certa misura, che il tempo e degli scossoni troppo forti
possono svuotare, richiedendo perciò costanti rabbocchi. Costituiti
dal nostro periodico affrontare e riprenderci da ciò che è causa di
malessere e abbattimento nella nostra vita.
Altra
analogia che mi piace molto è anche quella di una spirale ascendente
(quindi, per opposto, anche discendente), che ci orienta verso un
estremo o l'altro di una data abilità, ponendoci così ad alcuni
livelli “superiori” o “inferiori” della stessa.
Con
questa immagine in mente so dunque di aver maturato un determinato
livello di resilienza, nella sua capacità complessiva. Che mi
permette di vivere in una misura funzionale e atta all'affrontare, in
un certo lasso di tempo, un certo quantitativo e una certa
intensità** di “schiaffoni della vita”.
So
però, che quella resilienza non è tale da farmi affrontare veloce e
incolume certe cadute, né situazioni instabili particolarmente
gravose.
Mi
verrebbe da speculare oltre e domandarmi se in quella situazione
estrema descritta in “Se questo è un uomo”, che
finalmente ho letto, la mia innata base di resilienza (quella
indipendente dagli sforzi individuali coscienti) mi farebbe
appartenere alla categoria dei “salvati” o a quella dei
“sommersi”.
Fortunatamente
questo è un esempio limite, il cui esito si può conoscere
probabilmente solo con l'esperienza diretta. Che credo (e spero) non
avrò mai modo di sperimentare in vita mia, anche in maniera
vagamente analoga.
Resilienza negli obiettivi di Parkour (e non solo)
Tralasciando
il piano metafisico, rieccomi sul piano pratico che è quello della
pratica sportiva.
La
resilienza non gioca un ruolo determinante solo sul fronte del
“ripigliarsi” dopo un infortunio, ma è un elemento che definisce
l'attaccamento a degli obiettivi di una certa entità, specie quelli
sul lungo termine, mutando nella sua forma evoluta che è
perseveranza.
Ad
alcuni sicuramente potrà sembrare banale, ma il fatto di
identificare degli obiettivi da perseguire, per poi perderli di vista
a causa di distrazioni, avvenimenti avversi (quali infortuni
sicuramente, ma anche imprevisti di varia natura), mancanza di
energia, tempo etc. è sintomatico di una delle seguenti condizioni:
-
di scarsa resilienza, nel saper fronteggiare ciò che ci ostacola nel
conseguimento di ciò che ricerchiamo;
-
di mancanza di un sincero e fervido attaccamento a quel fine.
A
farmi i conti in tasca ho avuto modo di sperimentare entrambe queste
possibilità, più volte nella mia storia personale. Allo stesso
tempo ho anche avuto modo di portare certe sfide ambiziose fino al
loro traguardo.
Come
ad esempio in quel lungo travaglio, che è stato per me, ottenere la
certificazione come coach di Parkour ADAPT. Costatomi anni di
allenamento specifico, infortuni di ogni sorta, un esame durissimo a
Bergamo (per poco non passato) e infine un secondo tentativo a
Londra, questa volta conseguito con successo.
Tutto
questo perché lo spettro delle possibilità è sempre vario e
definito in larga parte da chi siamo noi, dalla natura dei nostri
desideri e dalla nostra capacità di desiderare con un certo
“fervore”.
Da
questo punto di vista, in quel sentiero che non è quasi mai lineare,
ma anzi tortuoso, talvolta labirintico, che porta a un termine
particolarmente ambizioso, la vera resilienza in molti casi è
proprio quella capacità di convincerci con determinazione a
proseguire un percorso, dopo innumerevoli cadute e anche quando il
desiderio in questo s'è affievolito.
“La
vita è una resistenza continua all'inerzia che tenta di sabotare il
nostro volere più profondo. Chi si stanca di volere, vuole il
nulla.” - Nietzsche
Il fattore attaccamento negli obiettivi del Parkour
Molte
delle persone che ho visto raggiungere risultati straordinari in
termini di movimento, in questi anni di pratica, mi hanno sempre
stupito per un fattore più o meno comune: l'apparente assenza di obiettivi ben definiti
e di una struttura organizzata per raggiungerli.
L'obiezione
che sorge spontanea è che è questa la magia dei talentuosi e di chi
è cresciuto adattando spontaneamente il proprio corpo a una pratica
fisicamente tassativa, come quella del Parkour, fin dall'infanzia. In
larga parte sono portato a sostenere questa linea, soprattutto avendo
visto quanto nella mia esperienza l'aver lavorato con delle mete
precise, principalmente in termini di forza e mobilità, mi abbia
permesso di accedere a certi movimenti limitando gli infortuni e
potenziando la performance.
Tuttavia
isolando questo aspetto a quello dei salti o di certe skills, legate
a fattori più marcatamente tecnici e/o percettivi che si mescolano
“visceralmente” ad alcuni psicologici, questa convinzione è
messa in dubbio, una volta superata la mera soglia dell'apprendimento
di base di quel determinato schema motorio.
L'impressione
è che un approccio “buddista”, di non attaccamento al dover fare
un salto ben preciso, ma piuttosto orientato a immergersi
nell'esperienza, a potenziare la visione affrontando quei salti che
“balzano” davanti agli occhi dove prima non c'erano, possa
portare a conseguire dei risultati inaspettatamente grandiosi sul
lungo termine, e relativamente in sicurezza.
In
particolar modo se questo processo non è contaminato da fattori
esterni (pressione sociale/mediatica) o interni (ego, dogmi).
A
rafforzare questa idea è la mia storia personale della quantità di
insuccessi (e anche infortuni) ottenuti nella smaniosa ricerca di
“sbloccare” quel salto o quella tecnica entro un termine
prestabilito; per il quale sicuramente il fattore “fai da te”,
con il quale ho imparato ad essere maestro di me stesso, non ha mai
aiutato troppo in questa direzione.
Ma
è nella guida istintiva, anziché all'affidarmi ottusamente a delle
drills iper-ripetute (che hanno comunque il loro valore in delle fasi
specifiche, specie nei principianti***) o al dogma della forza, che
spesso sono stato in grado di accedere a risultati di cui stupirmi.
Dettati da una ricerca “a naso” di stimoli sempre nuovi,
costruendo così inconsciamente quegli step intermedi utili a
portarmi nella direzione voluta. In un tempo però non stabilito a
tavolino.
C'è
però un grosso punto a sfavore in questo ideale di non-attaccamento,
e pare essere proprio l'incapacità di lavorare goal-oriented.
Che a lungo termine pare inficiare la motivazione generale verso la
pratica, guidandola talvolta verso la dispersività.
E
che non avendo aiutato nel maturare quella resilienza, dettata dal
ripetuto sbagliare e riprovare dell'altro versante, rischia di
deteriorarsi all'avvento delle prime serie difficoltà.
Qual è
quindi l'approccio migliore, per fare di quel decantato bagaglio
realtà e non illusione? Quello del mulo testardo e metodico, o
quello dello spirito leggero che fa della sensazione il suo
stendardo? Mi verrebbe da suggerire che il già citato approccio ibrido,
applicato a questo frangente, sia la soluzione ideale... in quanto
per me in parte lo è.
Questo
non tiene conto però della diversità delle persone, degli schemi
mentali innati o meno che ognuno adotta, dei talenti e degli
svantaggi individuali, per cui il lavoro più grande e difficile è
sempre quello di documentarsi, dello sperimentare, dell'imparare a
conoscerci e di capire cosa funziona bene sulla nostra pelle, per noi
stessi e in relazione alle nostre volontà più o meno profonde.
*
si, c'è stato anche qualche infortunio di mezzo, ma in alcuna
maniera determinante
**
si possono fare anche tanti bei parallelismi con entità e frequenza
dei carichi in rapporto a una funzione allenante o al rischio di
infortunio
***
sappiamo benissimo che ci sono fior fiore di preparatori atletici che
fanno raggiungere livelli di performance altissimi anche su elementi
iper-tecnici/percettivi. Tuttavia spesso si tratta di specialisti di
un set di gesti limitati, analizzati ossessivamente e generalmente
ripetuti nello stesso medesimo contesto, da atleti selezionati
“biologicamente” dall'agonismo. Poco a che fare con il Parkour e
la sua variabilità di scenari, protagonisti e azioni.