domenica 16 maggio 2021

I miei 2 cents sugli infortuni nel Parkour

Sono fresco d'infortunio in una caviglia. Niente di nuovo, né di particolarmente grave. Di sicuro una noia evitabile che mi pone in una condizione di rallentamento, trattandosi di un punto debole al quale dedico da anni tantissimo lavoro per il rinforzo. E che, dopo brevi periodi di apparente completa guarigione, torna a presentarsi in circostanze sempre simili.

L'occasione è però buona per andare a completare delle riflessioni che già da tempo volevo esporre.

Il tema degli infortuni nel Parkour (Art Du Déplacement, Freerunning etc.), come in tantissime altre discipline sportive/attività motorie è uno dei più dibattuti. È molto raro difatti muoversi, a certi livelli di intensità e variabilità, senza incorrere almeno una volta nella vita in un piccolo infortunio.

L'amico Ghost lo sa bene e ne ha parlato sul suo blog in maniera molto schietta, qualche anno fa. L'invito è quello di andare a leggere il suo post, perché per quanto possibile cercherò di ampliare l'esperienza collettiva sull'argomento senza ribadire ciò che già è stato scritto altrove.




Le tre sorgenti d'infortunio nel Parkour


Inesperienza. Impazienza. Disattenzione.

Senza tanti giri di parole, questo è il sunto di ciò a cui sono arrivato nello spiegarmi il perché le cose accadano e del perché spesso siano ricorrenti.
Ne ho una certa esperienza perché ovviamente ho tantissimi infortuni pregressi, che non sempre posso dire di aver subito senza che a provocarli non ci fosse una certa componente di stupidità e ingenuità nel rapporto causa/effetto di certe azioni.

L'infortunio per sfiga, invece, di fatto non esiste.

Già da subito qualcuno obbietterebbe che nel Parkour, l'infortunio per sfiga esiste eccome. Come quello di chi ha qualche problema genetico sconosciuto e di chi atterra su qualcosa che collassa inaspettatamente.

Realisticamente che percentuale rappresentano questi fattori nella totalità dei casi? Non è vero, poi, che la maggior parte di noi comuni mortali ha difetti genetici che porteranno comunque a qualche conseguenza? Che spesso tendiamo ad ignorare finché la frittata non è fatta? Non è vero che, ad andare a guardare queste cose bene nel dettaglio, si scopre che c'è sempre un fattore d'inesperienza a fare la comparsa?

Essere colpiti in volo, che ne so, da una cagata di un gabbiano, rimanerne accecato, toppando in pieno un atterraggio difficile. Questo può essere identificato come "sfiga". Ma sappiamo che l'improbabilità di questo evento lo rende pressoché ininfluente, in una qualsiasi stima statistica. Ecco invece perché parlerò di queste 3 componenti, che a mio parere rappresentano il fulcro dell'evento d'infortunio nella pratica del Parkour.

Inesperienza

Non sapere cosa succede se si compie una certa azione per la quale non si hanno sufficienti dati. Non conoscere la conseguenza di piedi troppo alti in un catleap su una parete particolarmente ruvida, con una presa superiore polverosa o dagli angoli smussati. Non conoscere le dinamiche di un precision con i piedi troppo avanti su una sbarra scivolosa. O del continuare a sollecitare pesantemente un tendine ben oltre la sua capacità di recupero.

L'infortunio per inesperienza è la madre di tutti gli infortuni. È quello meno facilmente evitabile, perché evitarlo vuol dire soprattutto sottrarsi ad un processo di apprendimento (spiacevole), che ha come scopo quello di renderci maturi e consapevoli. Probabilmente è anche la causa di danno più frequente nella popolazione giovanile, alla ricerca, spesso spietata, dei propri limiti individuali.

Un buon maestro dal mio punto di vista non è una mamma chioccia che cerca di prevenire qualsiasi evento negativo nei suoi allievi. Piuttosto è una persona che educa al saper analizzare certe dinamiche e che soprattutto permette loro di sbagliare, dando un perché valido all'errore. Magari in maniera controllata e più sicura possibile, ma non priva di conseguenze e del loro carattere educativo.

Impazienza

Tra gli infortuni, della mia esperienza di Parkour e di vita, uno dei miei preferiti. E uno di quelli che spinge a maturare più esperienza nel far combaciare il livello di sfida adeguato al proprio livello di preparazione effettivo.
È quello che caratterizza i praticanti più giovani, ansiosi di equiparare gli standard sempre più assurdi dei video di maggiore diffusione, ma anche gli ostinati che ripongono un’altissima aspettativa in sé stessi.


Per i "vecchi" come me, che hanno maturato sia una certa sensibilità nel voler adottare un buon standard qualitativo di movimento, sia una certa quantità di legnate per la fretta del progredire, è vero ormai l'opposto.
Si ha troppa pazienza, che spesso fa posare il culo nella propria zona di comfort del "lavoriamo bene che i risultati arrivano". Cosa, che se non si accompagna ad una vera capacità di costruire il proprio allenamento in maniera funzionale, si trasforma solitamente in un autoinganno di propedeutiche reiterate ad oltranza, o di volume a vuoto.


Ecco che, dal mio punto di vista, i praticanti anagraficamente (ma anche psicologicamente) opposti devono saper consapevolmente muoversi in un punto a metà tra gli estremi: per poter diminuire l'impatto negativo sui propri corpi (nel voler sempre forzare la mano) i primi, e per poter sfidare le proprie narrative di "anzianità" i secondi. Ritornando a crescere dove non si pensava più possibile.


È probabilmente una visione utopica la mia: non solo è indiscutibilmente legata a dei fattori esperienziali individuali, ma anche al voler mettere in discussione i propri dogmi personali/culturali. E al voler affrontare con onestà la natura reale dei propri limiti.


Disattenzione

Il più frustrante. Quello che si presenta in maniera più insidiosa, nelle giornate di stanchezza che magari si fanno fatica a valutare come tali. Che va a colpire i punti deboli, già normalmente esposti a tutti gli altri fattori (se non frutto di questi). Spesso senza neanche lasciare la magra consolazione che una vera e propria abilità sia stata testata.

Ho poco da dire su di questo tipo di infortunio, presente nel Parkour e non solo. Perché spesso imporrebbe di non allenarsi se non quando si è al 100% di presenza mentale e fisica. Il che in me equivalerebbe ad allenarsi un paio di settimane all'anno.

Di sicuro l'esperienza può giovare, nell'evitare più possibile che questi eventi si presentino.

Ricercare sfide impegnative, nelle giornate di poca presenza, può essere paradossalmente più sicuro che dedicarsi ai "movimentini". Che nascondono l'insidia di un atterraggio irregolare per una caviglia (e una mente) non particolarmente sveglia. O a drills monotone e poco intense, che in combinazione con la noia possono portare a risultati amari.

Ma la verità è che questi sono veramente difficili da prevedere, salvo che il nostro livello di attenzione sia sempre elevatissimo in ogni momento.


Il sempiterno loop degli infortuni del Parkour

Il saper dare un come e un perché ci siamo fatti male non vuol dire che automaticamente questo non capiterà di nuovo. L'allenamento è un processo esperienziale che nei soggetti meno sensibili a certi eventi richiede una certa reiterazione dell'errore, al fine di maturarne una propria valutazione personale.

Le persone che conosco e con le quali mi sono allenato hanno tutte un loro approccio al dolore e all'infortunio nella pratica del Parkour. Alcuni ne hanno fatto apparentemente grande tesoro, e hanno scelto di dove stabilire il limite in cui il proprio corpo potenzialmente può risentirne in maniera acuta o particolarmente grave, usando la paura come metro di misura. Altri invece vanno avanti "a cazzo duro", prendendosi ciò che c'è di buono e cattivo da questo "metodo". Ma giudicare, in verità, non è affatto facile.

Magari quella che sembra ottusità e insufficiente capacità di razionalizzare
(o di memorizzare) certi eventi, in alcuni, in verità è espressione di una straordinaria capacità adattativa; nel non lasciare sedimentare i traumi nel profondo della psiche e nel saper andare oltre.
È forse fare buon viso a cattivo gioco, ma nell'essermi fatto male così tante volte nella vita (ovviamente mai in maniera totalmente irreparabile), ho imparato un po' cosa vuol dire lasciarsi alle spalle il peso di un trauma e l'attaccamento psicologico al dolore.

Ma è anche vero che, in questo processo di crescita, l'esperienza del trauma fa maturare i suoi nuovi limiti e prima o poi tutti ci troveremo a doverci confrontare con un'ansia demotivante. Nel metterci di fronte a qualcosa che prima sapevamo fare con confidenza, ma nel quale sussiste la consapevolezza d'errore.

Limiti che forniranno nuove barriere inconsce, atte a preservare il nostro corpo, che non vuole essere danneggiato. Barriere che dovremo scegliere se voler forzare e superare nuovamente. O accettare come tali in una nostra maturata, nuova, visione della vita.


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