Interrompo il mio silenzio su questo blog per buttare giù qualche riflessione che mi gira per la testa da un po'.
Attualmente sono entrato nel mio undicesimo anno da quando ho iniziato a insegnare questa disciplina. Mi ricordo ancora il mio primo periodo da "coach", di come fossi arrivato in palestra con l'arroganza un po' snob della strada, ma anche entusiasmo da vendere, creatività naif e desiderio di investire molto nella diffusione "istituzionalizzata" del Parkour. (n.b. parlerò di Parkour e non di Art Du Déplacement perchè, nonostante le congruenze, è l'esperienza alla quale mi voglio riferire)
Faccio questo preambolo perchè la lettura del libro degli scritti di Gato mi ha richiamato alla mente molte cose di quegli anni, alcune belle ma non tutte positive.
Una nota d'ammirazione: Federico "Gato" Mazzoleni è stata una mente brillante e visionaria che ha saputo cogliere quell'essenza di rivoluzione che si nascondeva in questa disciplina e che giustamente, nella sua promozione a un pubblico più grande, non voleva che fosse snaturata a mero prodotto di consumo. In questa impresa ha argomentato le proprie posizioni col rigore della formazione scientifica e una ratio veramente rara in un mondo che vive "di pancia".
Eppure tra le molte considerazioni tratte dal suo blog che, a rileggerle oggi, sembrano ancora fresche per la loro intelligenza e attualità, altre invece sono l'opposto: adatte a un contesto che esisteva solo in quella fase di sviluppo del Parkour. Spesso polemiche atte a definire l'identità di qualcosa di nuovo, talvolta sterili, e a posteri influenti solo per quella che è rimasta una nicchia di questo mondo.
Senza scendere più a fondo, le riflessioni stimolate da questa lettura mi hanno:
1 - spinto a fare una revisione della mia esperienza personale come coach e di come sia cambiato il mio punto di vista in questi 11 anni
2 - posto l'interrogativo di quali siano le necessità attuali di chi popola questo mondo. Praticanti, studenti, coach, atleti ma anche genitori e gestori di impianti/associazioni, comuni etc (i quali, volenti o nolenti, fanno ormai storicamente parte di qeusta realtà).
È quest'ultimo punto che voglio approfondire perchè sento che manchi molta discussione a riguardo, soprattutto in relazione all'evoluzione avuta finora. Per comodità raccoglierò questo popolo in tre categorie ("i praticanti", "i corsisti", "gli altri") e spiegherò quelle che intuisco essere le necessità di ognuna di esse.
- I praticanti.
Chi sono? Sono la selva di coloro che vivono questa disciplina con continuità, a vari livelli di intensità e con obiettivi diversi. Sono il "cuore" del Parkour, perché come questo muscolo pompano sangue nell'organismo e permettono a tutto il resto d'esistere.
Le necessità sono molteplici. Chi è più orientato all'aspetto di coaching avrà la necessità di trasmettere la propria visione nel modo più efficace e possibilmente trasmettere le proprie competenze tecniche o i propri valori maturati attraverso il Parkour.
Chi è un atleta invece vorrà vedere affermata la propria abilità, avere successo in qualcosa che piace e spesso capitalizzare adeguatamente il proprio investimento di tempo ed energie (vedi competizioni ma non solo).
Chi è prevalentemente un praticante vorrà vivere l'esperienza "pura", tenendo alto il livello di sfida, ispirando altri e immergendosi a pieno in quest'arte. Non da meno evitando che venga snaturata da forze esterne.
Tutti questi possibilmente hanno necessità di trovare o coltivare significato in ciò che fanno, molti vogliono anche nutrire una comunità, per non trovarsi soli in questo processo.
- I corsisti.
Ovvero chi popola il mondo dei corsi, delle palestre dedicate. Non solo in veste di consumatore, ma anche di formatore "non praticante". Qua la realtà, che si è sempre semplificata vedendo il corsista come "cliente" o come "discepolo" da indottrinare, diventa un po' più complessa per ciò che riguarda le necessità. Soprattutto perchè spesso si parla di adolescenti o giovani adulti.
C'è chi fa Parkour perchè è attratto dai suoi movimenti e trova naturale l'impararli e l'eseguirli.
C'è chi trova un ambiente sociale inclusivo per la propria tipologia di persona, una propria "tribù", magari diversa da un ambiente scolastico o lavorativo ostile.
C'è anche chi è costretto dai genitori a fare un'attività sportiva (e la scelta ricade su qualcosa che è visto come generico e poco serio).
Poi c'è anche chi coglie un'opportunità di crescita interiore o rivalsa verso un sè che non piace.
E ancor più raramente c'è chi ha intuito una certa preziosità nella disciplina e ne viene rapito, magari uscendo poi dalle barriere dell'attività organizzata.
Chi è invece dall'altra parte della barricata (i coach "non praticanti"), ha a sua volta diverse esigenze. Da quella più pratica del farci uno stipendio e spendere la propria formazione passata in maniera coerente, a quella più "nobile" di portare avanti un gruppo sociale "sano" per fare un servizio alla comunità.
In ambo i casi talvolta con meno conseguenze negative possibili per la propria persona (considerando la possibilità di pericolo intrinseca nel Parkour), cosa che può compromettere la trasmissione dei valori di questa disciplina.
- Gli altri.
Per prime le famiglie. Che affidano minori a estranei e a un'attività che attrae ma che sembra anche strampalata e pericolosa.
Per le quali, passato l'eventuale timore iniziale (se i formatori sono competenti e non ci sono sfortune del caso), emergono tutte le comuni necessità genitoriali: avere un ambiente sano per i propri figli, privo di bullismo e discriminazione. Un'ora dove questi si "sfoghino", facendo l'attività motoria minima per riequilibrare la sedentarietà straripante. Per i genitori più progressisti anche un luogo dove questi possano farsi male e imparare attitudini utili alla vita, per quelli più conservatori magari un'occasione per il figlio ipercinetico di diventare una stella emergente di un "nuovo" sport.
Tutti più o meno benevolenti ma che hanno una necessità fondamentale non scritta: che tu non causi alcun danno permanente o fatale alla loro prole.
Stessa visione comune per ciò che riguarda associazioni, gestori d'impianti e talvolta comuni (se collaborano attivamente), che non vogliono essere trascinati in cause legali, bensì vedere il proprio investimentimento di spazi e denaro in quello che sembra essere un trend giovanile ritornare con pubblicità positiva, raggiungimento di obiettivi sociali (vedi politiche giovanili), generare discrete entrate monetarie o banalmente aiutare a coprire le spese per i sempre più costosi impianti.
Questa è quella che per me è una panoramica importante delle necessità che compongono questo mondo, a suo modo superficiale perchè si potrebbe scavare in ognuna di queste categorie e andare più nel profondo e trovarne di nuove. Non lo farò (non ora probabilmente neanche in futuro), perchè già questo dovrebbe aiutare nel vedere con un punto di vista un po' più ampio come il Parkour sia vissuto e affrontato da chi lo affolla.
Dove mi colloco infine io, alla luce di questi 11 anni di coaching?
Direi molto nel coach praticante, un po' nel formatore "corsista" e molto meno nel praticante "puro". Non nego che, sebbene ora il mio lavoro principale sia altro, l'insegnare Parkour sia una fonte di reddito utile al mio sostentamento e che in parte questo risponda alla mia necessità di "viverci".
Però continuo anche a credere nel valore formativo di ciò che insegno, sopra il guadagno e talvolta la necessità di ridurre al minimo le conseguenze negative per la mia persona. La mia visione di disciplina è sicuramente cambiata e quindi anche il mondo di insegnarla (talvolta in totale opposizione a certi purismi passati). Ha abbracciato il punto di vista delle PERSONE e ha dovuto fare alcuni passi indietro, cosa che riconosco essere un rischio perchè può far perdere la bussola a sè stessi. Però è rimasta coerente a quelli che sono i valori che ho vissuto come spontanei e positivi nella mia esperienza personale.
Se mi guardassi ora con un certo filtro passato (alcuni scritti di Gato, certi dettami ADAPT, dell'ADD o purismi generici), probabilmente sarei un coach mediocre. Non spingo le persone a cui insegno ai limiti di fatica ogni sessione. Non partecipo quasi più attivamente alla loro "sofferenza". Non le indottrino su un certo modo di praticare "giusto" o "sbagliato" (al massimo le educo).
Mi vedo invece essere guida di gruppi coesi, dove c'è un'atmosfera rilassata e inclusiva. Dove quasi nessuno si rifiuta di mettersi in gioco e di affrontare sè stesso. Dove c'è lo scherzo e la presa in giro (anche verso il coach), ma non con la volontà di schernire, sminuire o insultare. Dove le persone vengono volentieri per imparare, spingere, ma anche rilassarsi, stare in compagnia e non sentirsi giudicate se non sono il top. Persone che molto probabilmente non diventeranno le future generazioni di praticanti guardiani della disiciplina, ma che stanno bene e son felici. E questo è fonte di soddisfazione.
Alcune di queste cose hanno forte risonanza anche con le mie esigenze attuali da praticante. Il Parkour non ha smesso di essere un'arte, ma io ho smesso di essere severo con me stesso per non essere un bravo artista. È diventato uno strumento dalle performance sicuramente più modeste che in passato, ma sempre utile come connessione all'ambiente, alle persone che sento "tribù, e al mio io più profondo che vuole ancora muoversi ed esplorare come un bambino.
domenica 13 luglio 2025
Parkour - le diverse necessità
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Grazie per questa condivisione, molto onesta e lucida. Alla parte di me ancora ferma al 2010 ha fatto stringere un po' i denti, ma che queste riflessioni vengano da uno come te che ha sempre "camminato le parole" pronunciate, fa scaturire punti di vista nuovi. Sarebbe bello avere ancora dei luoghi dove poter discutere di questi temi, in modo che scritti come questo non siano solo sassi lanciati in uno stagno silente. Ma questo lo pensa la mia parte ferma al 2010, che non tornerà mai più così.
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