Qualche giorno fa ho intrapreso una sfida.
Da tempo
desideravo fare qualcosa di simile, poi questa mi ha “chiamato” e non ho potuto
più far finta di nulla.
Qualche giorno di indecisione, freddo, alcuni infortuni mediamente freschi che
ancora fanno male, un mese di inattività quasi totale e scarsa motivazione.
Se si aspettano sempre le condizioni perfette per fare un qualcosa che si può
fare ORA, si è inclini a non farlo MAI.
Studio il percorso e le opzioni. La distanza non è importante, non è un numero
di spicco, ma di più lo sono le regole che determinano se la sfida viene persa:
- Mai alzarsi in piedi, mai appoggiare le ginocchia né il
sedere a terra fino a metà percorso (estesa poi fino alla fine)
- Muoversi solo in quadrupedia, di qualsiasi tipo
- Pause non più lunghe di 4 minuti sempre in posizione di tenuta o accosciata,
il meno possibile, obbligo di muoversi tra una pausa e l’altra
- Non impiegare più di 6 ore per giungere a destinazione
- Acqua consentita, cibo lo stretto essenziale
E parto.
11.40 – Cammino in direzione del punto di partenza designato. L’aria fredda
carica di umidità è mortificante e anche le distanze che studio con lo sguardo
lo sono. Uno dei talloni, leso da un forte impatto un paio di giorni prima,
geme ad ogni passo e mi domando se ho veramente idea di cosa stia facendo.
Arrivo, un riscaldamento veloce, fascio le mani, il sole penetra la foschia,
incoraggiante come non mai.
12.00 – Attendo che le campane di Venezia tacciano il mezzogiorno, raccolgo con
un goffo rituale la forza in me e parto. Le mani accolgono l’asfalto trovandolo
sorprendentemente morbido, ma i primi cento metri sono comunque un duro
riscaldamento. Il nastro sui palmi è stretto e ho paura che la circolazione mi
si blocchi. Dopo qualche minuto il fisico inizia ad ingranare, il sole splende
e l’aria fresca della laguna riempie di gioia i miei polmoni. Procedo calmo e
costante, in batterie di passi: ogni 50 cambio tipo di quadrupedia o ad ogni 25
cambio lato. Nessuna pausa tra le transizioni, voglio arrivare alla prima meta,
la collinetta del parco S. Giuliano, senza mai fermarmi.
13.00 – Sono in alto sul primo traguardo e la frustrazione mi sfiora: è già
passata un’ora, la tappa successiva non si vede mentre la partenza è poco più
sotto del mio sguardo! Per fortuna la giornata splende, un sorso d’acqua
sciacqua via lo sconforto e riparto, positivo: non ho ancora dato nulla!
Mentre i corridori ed altri avventori del parco mi sfiorano e anche i più lenti
si allontanano veloci, il mondo assume una nuova realtà da quella prospettiva.
I passi sono più irregolari adesso, frastagliati da pause più frequenti, frutto
dell’aver voluto accelerare con batterie da cento, sfiancandomi invece più
velocemente.
Il coccige duole ed affiora anche un fastidio leggero ai cervicali, alimentato
dalla scomodità dello zainetto che porto con me, zavorra che maledico da quando
ha iniziato a scivolarmi sempre più sulle spalle e che non riesco a sistemare.
13.30 – Realizzo che una delle regole che ho scelto, quella di non alzarmi mai
in piedi, unita alle posizioni di quadrupedia, non mi permettono quasi mai di
distendere completamente il capo: un segno di rispetto verso la sfida! Il ponte
pedonale del S. Giuliano è finalmente comparso, accelero per arrivarci prima
delle 14.00, desideroso di godermi dell’acqua e 4 minuti di pausa. I palmi sono
dolenti e alcune quadrupedie di “riposo” sono per questo motivo ora
impensabili. Tento di muovermi sugli avambracci, ma mi passa la voglia
velocemente.
14.00 – Anche la seconda tappa è
superata e sono uscito dal parco. Sono felice, in linea coi tempi e ancora ricco
di energie. Le mie mani accolgono con curiosità e sollievo le nuove superfici,
stanche dell’asfalto ormai abrasivo del parco. Una signora, per ironia
francese, mi domanda se sto facendo un nuovo sport. “È parkour”, le rispondo,
“È un tipo di sfida”.
14.40 – Sono frustrato. Questa parte di tragitto è
inaspettatamente più lunga del previsto. La chiesa di Viale S. Marco non vuole
avvicinarsi e sono costretto alla cautela, dopo lo sfiorare dei primi crampi ai
quadricipiti. Sono arrabbiato. Silvia non mi ha più chiamato dopo le 13.00.
Come può essersi dimenticata di me, per quasi due ore, sapendo cosa sto
facendo, sapendo che mi serve supporto? Desidero ripicche, voler instillare
sensi di colpa. Ingoio il tutto, non sono qua per questo motivo.
15.00 – Giungo all’obbiettivo intermedio, riadattato nella mezzora precedente,
bivio delle due alternative della sfida e imbocco il percorso che credo essere
il più difficile. Finalmente Silvia mi chiama ma perdo la chiamata nei lenti e
goffi tentativi di togliermi lo zaino in accosciata. Attendo un secondo
tentativo per un paio di minuti, ma non succede nulla e rimetto lo zaino. Sento
un messaggio vibrare ma non posso perdere altro tempo. Vedendomi sostare una
signora da una casa sulla strada mi domanda se sto male, le rispondo di non
preoccuparsi e mi sorprendo di quanto la mia voce risuoni energica e
squillante: la fatica che provo è perlopiù mentale. Procedo ma compare un nuovo
problema: un ricordo, una fetta di pane con olio e salsa di soia, merenda
d’infanzia, si fissa, tarlo nella testa, seguito da un leggero capogiro. Mi
ricordo dunque che ho fame e mi ripropongo di mangiare qualcosa una volta
raggiunta la prossima tappa.
15.30 – Sono giunto in cima al ponte pedonale di Viale Vespucci. Tra le dita
stringo un plumcake della lidl ed è qualcosa di vicino al sacro. Il gusto è lo
stesso banale di sempre, ma lo assaporo lentamente con la bocca secca e
pastosa, e lo mando giù con l’ultimo goccio del mio primo litro d’acqua. Ho
altri due plumcake per insistenza di Silvia, ma già con uno mi è sembrato di
tradire una regola non stabilita, perciò li lascio come sono, a spappolarsi tra
il cielo e la mia schiena. Il tratto finale è su di un argine all’apparenza
poco frequentato e ringrazio quella poca energia che ho assunto, che magari mi
eviterà di collassare al calar del buio passando totalmente inosservato. Ho
risposto a Silvia che sto bene, ultima comunicazione prima di tornare a casa.
16.00 – Il desiderio di alzarsi in piedi, già presente da ore, è adesso
struggente, l’idea di distendere completamente il corpo la più bella che possa
immaginare. I cervicali mi opprimono, quanto l’incessante bruciare di spalle ed
addominali. Immaginavo che questa sfida sarebbe stata un’allegoria della vita,
ma non in questa maniera, avendo idealizzato un qualcosa di drammatico e
sensazionalmente emotivo.
Vedo invece le stagioni, i piccoli grandi obbiettivi per i quali si lotta e ci
si dispera, che si raggiunge per poi superarli e rincominciare con nuovi. Ogni
volta che passo oltre una meta, un grande riferimento visivo e simbolico, e voltandomi
a guardarla la vedo ancora vicina sono assalito dallo sconforto, ma vado avanti
finché guardando ancora non scompare mentre quella dopo si delinea
all’orizzonte. Questa visione mi sostiene e mi rassicura delle mie capacità.
16.30 – La luce sta calando, l’aria pungente di fredda umidità si intensifica
nuovamente. Sto procedendo da tempo su un corso di sassi e terra, con
difficoltà crescente per le mani e i polsi, costretti a riadattare un gesto
sempre più stanco a superfici irregolari e discontinue. Benedico il fatto che
la strada si sia asciugata dalla pioggia di due giorni prima sufficientemente
da non rendere il tutto troppo scivoloso e frustrante. Mi faccio strada in
qualche metro di calcinacci battuti, attento a vetri e a schegge appuntite,
giungendo nei pressi della mia penultima tappa prima della fine.
L’attraversamento pedonale della rotonda della nuova Via Vallenari presenta il
problema evidente delle macchine. Cronometro l’attesa attendendo che non vi
siano pericoli immediati e con 6, forse 7, kong al suolo ben assestati, mi
lancio il più velocemente possibile dall’altro lato. La spinta brucia il fiato
e mi concedo una seconda pausa da 4 minuti, finisco la mia ultima acqua,
zavorra in meno per il tratto finale.
17.00 – Il sole è scomparso ed il sentiero è più frequentato del previsto;
perlopiù persone a passeggio coi loro cani, i quali, straniti, mi abbaiano
contro, alcuni più, altri meno, aggressivi.
Un paio sono di grossa taglia e slegati, le loro voci sono boati fragorosi e
minacciosi. Aspetto sempre che i padroni, maledicendo me quanto i loro cani, ne
riprendano controllo e mi superino sullo stretto sentiero.
Per tre volte mi accosto a lato, l’ipotesi di venire azzannato è verosimile ma
non mi alzo in piedi, non adesso, ed agisco con strategia e controllo, come da
inizio sfida.
Sono vicino al mio obbiettivo, ne sono certo, ma non mi riesce di vederlo, a
fatica di percepirlo.
Per effetto del buio e della miopia, unite ad una curva sull’argine, i
riferimenti visivi che ad ora mi hanno supportato sono confusi e la
disperazione inizia a strisciare. Se non giungo al termine entro le 18.00 la
sfida è persa e l’unico riferimento visivo chiaro che ho è una luce di semaforo
sfocata che pare sempre alla stessa distanza. Sto procedendo ormai solo in
quadrupedia classica in avanti, ipotizzo che cambiare forma sia ormai un
palliativo ed utile solo a perder tempo, anche non fosse così voglio accelerare
e dare il massimo per giungere alla conclusione più brevemente possibile.
Eppure ogni volta che alzo lo sguardo sono quei pochi metri assurdamente
interminabili delle prima volta che ho fatto quadrupedia.
17.20 – Inaspettatamente, nascosta dal buio e dalla vegetazione, compare alla
mia destra la stradina che dall’argine accede al parchetto Allende. Scendo i
tre scaloni di fango, scivolosi, e ringhio ad ogni passo il mio sforzo. Un
altro cane abbaia ed un altro padrone che inveisce. Odore di sigaretta, risate,
forse prese per il culo, percepisco, ma non posso vederlo, un branco seduto su
una panchina.
Allontano la rabbia, sono gli ultimi metri e non voglio che questa sia il mio
carburante e che contamini la sfida e i motivi per cui sono là. Da qualche
minuto procedo senza sosta ed ogni passo è vicino al massimale.
Arrivo al totem, centrale al parco giochi, un palo di legno alto un due metri e
mezzo con degli intagli per invitare i bambini ad arrampicarsi. Lo taggo con la
mano e mi rialzo a fatica, finalmente dritto sui miei piedi.
Abbraccio il totem, tremante e ad occhi chiusi, per qualche lunghissimo secondo,
poi inizio a salire. La cima è difficile, un mezzo pistol squat per il quale
impiego un paio di minuti prima di poter essere su con entrambi i piedi. Non
posso perdere l’equilibrio, nonostante la ghiaia di sicurezza, sento
chiaramente che non riuscirei a gestire alcun impatto da quella altezza e in
quello stato.
Oscillante mi raddrizzo in piedi, riacquisto dignità.
Nessun urlo liberatorio immaginato. Nessun gesto teatrale di braccia aperte.
Solamente il cuore leggero ed una consapevolezza: ce l’ho fatta.
Scendo cautamente e collasso per lunghi minuti su una comoda giostra, il corpo
assente, finché non giunge il freddo. Mi rialzo e mi trascino verso casa con un
solo desiderio: una fetta di pane con olio e salsa di soia.
DIETRO LA SFIDA
PERCHÉ NO
PERCHÉ NO
Dare una spiegazione a tutte le motivazioni che mi hanno spinto ad
intraprendere questa “challenge” e a perseverare nel suo compimento potrebbe
essere un processo molto lungo e difficile, considerando tutti i fattori più
intimamente personali di cui non scriverò.
Giusto per dare un po’ di chiarezza in più, voglio partire delineando i motivi
per cui NON ho portato avanti questa sfida:
- Per tributo verso qualcuno. Non ho interesse nel compiere qualcosa del genere
per attirare l’attenzione di qualche “idolo” o renderne omaggio. Come sempre
credo nella natura individuale di ogni percorso e che certe persone siano là
dove sono per poter ispirare, non per essere tributate, tantomeno scopiazzate
per “dovere”.
- Per diventare “leggenda”, per fare un record, per vanità. Un’ambizione del
genere è tentante e stimolante ed ha sfiorato la mia testa durante la sfida più
di una volta, ma è un’idea che ho sempre allontanato in fretta, per non dover
contaminare le ragioni che volevo mi spingessero ad essere determinato.
Men che meno mi sento parte di una cerchia di eroi. La sfida che ho intrapreso
è relativamente modesta ed accessibile a molti praticanti ben motivati, sono
sicuro che già molti altri hanno portato i propri limiti ben oltre dove li ho
portati io in termini di fatica e distanze. Per non dire che gli eroi stanno da
un'altra parte, a fare cose più utili al genere umano.
- Per masochismo o amore del dolore. Amo il benessere fisico e sono sempre più
dell’idea che “noi siamo il nostro corpo” (cit. Bruce Lee), in contrapposizione
a quella del corpo-oggetto, spesso giocattolo da rompere ed aggiustare nella
nostra società moderna.
- Per potenziare. Sembra ridicolo e scontato ma c’è chi fraintende sfide del
genere come mezzo per allenare il fisico e non come sfida verso sé stessi. Devo
ammettere che sento un benefico e tonificante indolenzimento muscolare, esteso
per tutto il corpo, con riduzione massiccia della sensazione di infiammazione
dei piccoli infortuni cronici e di sicuro ci sarà stato qualche piccolo
guadagno in termini muscolari. Ma dubito altamente che la mia forza, se non
quella mentale, possa essere aumentata, tantomeno la mia potenza di salto. Nel
caso dovessi sbagliarmi, non era assolutamente preventivato e sarei
sinceramente stupito di aver guadagnato in 5 ore e mezza di sfida ignorante
qualcosa che di solito impiega settimane di metodo.
PERCHÉ SI
- Per amore della sfida. Se il parkour è reinventare lo spazio urbano e vedere
opportunità dove altri vedono ostacoli, allora anche qualche kilometro di pista
ciclabile può diventare montagna da scalare.
- Per dare valore alla propria pratica. Se si crede veramente in qualcosa che
si ritiene bello e prezioso, talvolta bisogna portare la coerenza oltre ciò che
si fa di solito. Per anni ho nutrito delle sfide che non fanno interesse né spettacolo
e le ho sentite sminuite rispetto ad un qualsiasi movimento esplosivo standard,
nonostante nutra con passione anche quel lato. L’ultimo anno per vari motivi mi
sono trovato sempre più obbligato verso un parkour di movimenti non “miei”, sia
per obblighi di coaching sia per lo “standard” mediatico sempre più assillante.
Se da una parte è stata un’occasione di crescita e di risoluzione di “nodi” che
erano fermi nella mia pratica e che sentivo l’obbligo di sciogliere, dall’altra
è stata un’esperienza frustrante di spinta verso una direzione nella quale le
soddisfazioni sono sempre effimere e povere, quando le si trova a paragonarsi
ad un determinato standard. Ma soprattutto una direzione spoglia di una certa
riflessività che ha sempre nutrito la mia crescita interiore, in quanto
orientata unicamente al gesto tecnico. Quando mi è entrata l’idea in testa di
fare una sfida veramente massiccia che mancava alla mia pratica, l’ho fatto
proprio con l’idea che avrei potuto “sacrificare” un parte della mia esplosività
per nutrire quello che più è utile nella mia visione di parkour: il
cambiamento.
- Per conoscermi. Ora ho una consapevolezza in più di dove posso portare i miei
limiti e tutto il processo è stato di dialogo. Non solo con lo io interiore, ma
soprattutto con il corpo: quali strategie adottare per riuscire al meglio nell’impresa,
cosa mi fa male e cosa no, cos’altro può essere utile a muovermi meglio etc. Un
enorme processo cognitivo per un unico gesto prolungato nelle ore.
- Per ispirare. Me stesso per primo, per avere conferma delle mie capacità ed
infondere nuove energie ad una pratica che nell’ultimo anno è stata difficile
da motivare, pur essendo sempre stata attiva e non povera di risultati. Poi le altre
persone: vecchi compagni d’allenamento - magari quelli che stanno mollando la
presa e non sanno più in cosa credere -, giovani praticanti - che vorranno
confrontarsi in sfide simili o ambire ad andare oltre -, e chissà, magari
persone che non hanno mai capito cosa vuol dire allenarsi in una certa maniera
e qual è la strada verso la vera “libertà”. Per non parlare di tutti coloro al
di fuori del parkour che magari hanno bisogno di un po’ di “gaso” per portare a
termine qualcosa d’importante per le loro vite.
- Per altri motivi, più intimi e privati, magari ricchi di “misticismo orientale”.
Posso solo dire che tra un passo e l’altro che contavo ho anche recitato,
talvolta, qualche mantra.